2010-09-07 16:00:00

Il Risorgimento italiano secondo Mario Martone tra i film più attesi al Festival di Venezia


E’ uno dei film più attesi della Mostra del Cinema veneziana e sul quale si concentra l’attenzione della critica, degli spettatori e degli storici: "Noi credevamo" di Mario Martone tratto dall’omonimo romanzo di Anna Banti. Tre giovani si muovono sullo sfondo della tormentata storia che portò all’unità d’Italia. Un film rigoroso, commovente, intimo, che guarda al nostro presente e sul quale è doveroso riflettere. Il servizio di Luca Pellegrini:RealAudioMP3

Due volte brucia una chiesa del Sud, quarant’anni dividono questo incendio, due eserciti macchiano di sangue terre aride di speranza e di coscienza: sono quelli borbonici prima, piemontesi poi. L’Italia nasce così, non una vera rivoluzione, non un sentimento condiviso di patria, ma un parto difficile, un cesareo necessario, del quale pochi decidono i tempi e i modi. Tre fratelli attraversano le fasi di questa nascita, che è di ieri – il come eravamo – ma racconta anche i tempi nostri – il perché siamo – tre diversi destini, tre illusioni che scorrono nelle oltre tre ore di film. Mario Martone, in questo suo affresco risorgimentale, evita le masse, le battaglie, gli eserciti, i re e i politici, le figure alte della storia (se non Mazzini) e si concentra, da grande regista di teatro e di sentimenti, sui singoli e sulle famiglie, sui nobili e gli ultimi, i ricchi e i poveri, gli eroi e i traditori, dirigendoli tutti con eccelsa bravura: chi teorizza, chi complotta, chi subisce, chi viene avvolto dal morbo demoniaco della rivolta e delle armi e chi da quello poco eroico del compromesso e degli interessi. Un Risorgimento che è pagina di storia difficile ancor’oggi, a centocinquant’anni di distanza. Abbiamo chiesto al regista napoletano come si configura nel film questo rapporto col presente.

“E’ un film rigorosamente documentato. Al tempo stesso, il rapporto col presente è sempre molto forte. Quello che per me conta è che sia lo spettatore a compiere questo lavoro, cioè che non sia da parte nostra messo in maniera artificiale. Tenete presente che gli attori si sono confrontati con una lingua obsoleta, la lingua dell’Ottocento. Gli attori hanno sempre accettato questa sfida come una sfida importante, cioè la possibilità di rendere viva quella lingua perché lo spettatore potesse cogliere il rapporto tra quel passato e il nostro presente”.

Il tema musicale che accompagna questa storia italiana è tratto dal Don Carlos verdiano, melodramma sul potere e le vanità del mondo: una scelta voluta?

“L’idea di partenza è venuta ascoltando l’Otello. Ascoltavo l’Otello, dirigeva Muti all’Opera di Roma, l’aria 'Dio! Mi poteva scagliar': grazie al fatto che eravamo in teatro, riesco a sentire l’orchestra separata dalla voce e capisco che quella musica in qualche modo è, sì, melodramma, ma c’è qualcosa di molto tormentato. Partendo da lì abbiamo, poi, cercato le scelte che musicalmente avessero sempre un carattere di qualcosa che gira a vuoto, che gira intorno, e le abbiamo trovate disseminate in diverse opere principalmente di Verdi. Nel Don Carlos ce ne sono molte. Quel tema in particolare è il tema del personaggio di Angelo, che non a caso è il personaggio più tormentato e scavato dal punto di vista del tormento interiore”.







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