"La Passione" di Mazzacurati al Festival di Venezia
In concorso a Venezia oggi è atteso il secondo titolo italiano, “La Passione” di Carlo
Mazzacurati: nell’allestire in Toscana una Sacra Rappresentazione, il coinvolgimento
di un regista in crisi e di un intero paese porterà a esiti inaspettati. Con i toni
della commedia e nel rispetto del tema, un film che fa sorridere e riflettere. Il
servizio di Luca Pellegrini:
Sotto una
pioggia battente, in croce è salito un altro “povero Cristo”. Non risponde all’iconografia
tradizionale, prima di tutto per i numerosi chili che ha addosso. Sta recitando, suo
malgrado. E’ un ex-carcerato che ha un cuore grande come quello di Gesù. La gente,
che prima assisteva muta e composta e partecipe, alle prime gocce urla e, nel parapiglia,
se ne va. Abbandona la scena. Dimentica presto. Soltanto un’emozione di superficie.
Dentro, rimane il nulla. E’ la solita storia: chi è inchiodato, non può scappare.
E chi è libero, fa una scelta. Solitamente è la più comoda e conveniente. Ma Silvio
Orlando, nella parte, perfetta per lui che è un grande attore “semi-comico”, di un
regista in perenne crisi e che a prestare l’arte sua per quella sacra rappresentazione
nel paesello toscano ci è stato costretto, no, lui non se ne va, come pochi altri.
Guarda il crocefisso, guarda fisso negli occhi Giuseppe Battiston. Che cosa capisce
in quel dialogo silenzioso di se stesso, dei propri fallimenti e della propria vita?
Lo abbiamo chiesto al regista, Carlo Mazzacurati.
“Penso
che il cinema debba, in parte, dire attraverso i dialoghi ed in parte rimanere silenzioso.
Quei vuoti ognuno li deve riempire con i propri pensieri. Quello che succede a lui
in quel momento, è come se questa cosa improvvisa, che è arrivata, inattesa, cioè
la forza di quello che sta succedendo, gli riconsegnasse qualcosa che lui, nel profondo,
sente di aver perso: la capacità d’invenzione, d’ispirazione. Come se questa quasi
epifania, per certi aspetti, si ricongiungesse con la metà di se stesso perduta. Tant’è
che alla fine, lui, ha di nuovo il coraggio d’inventare”.
E’ un film
particolare, dunque, “La Passione” e, in fondo, ha del coraggioso: osa trattare un
tema così importante e delicato e serio – la tragedia di un Dio deriso e inchiodato
sul legno – attraverso una finzione che guarda più alla commedia che al dramma. La
anomalia sta tutta nel racconto: quel regista pasticcione e in perenne fuga, dopo
aver combinato un guaio e rovinato un affresco prezioso di quel paese dove è proprietario
di un appartamento, si trova messo dinanzi a una scelta: o ripristinare la tradizione
della sacra rappresentazione o venir denunciato. Sceglie la prima opzione e lentamente
coinvolge tutto il paese e i suoi estroversi abitanti nella recita, ma soprattutto
si fa coinvolgere. Un film a suo modo sapiente, un film delicato che nella sua apparente
semplicità si fa vicino alla gente e alla vita di tutti i giorni, a persone che sono
esposte più di altre alle difficoltà quotidiane ma che, nel partecipare a quella sacra
tradizione di teatro popolare, ritrovano un ruolo, uno scopo, un rapporto, un futuro.
E’ la ricerca di molti. Mazzacurati indica, molto sinceramente, una via.