Dubbi e speranze in Terra Santa sulla ripresa dei negoziati di pace israelo-palestinesi.
Il commento di mons. Shomali
Sempre in primo piano l’annuncio della ripresa dei colloqui diretti tra israeliani
e palestinesi, promossi dal presidente americano Barack Obama per il 2 settembre a
Washington. Soddisfazione è stata espressa in un comunicato dal segretario generale
delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. In queste ore, i palestinesi hanno ribadito l’importanza
dello stop all’espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania per un buon esito
delle trattative. Il raggiungimento di accordi di pace è “difficile, ma possibile”,
ha affermato oggi il primo ministro israeliano Netanyahu chiedendo alla controparte
la massima disponibilità per scongiurare lo scetticismo. Sui punti critici di questo
negoziato, Marco Guerra ha intervistato mons. William Shomali, vescovo
ausiliare del Patriarcato latino di Gerusalemme:
R. – Tra
i punti critici il primo è il ritiro dai Territori occupati. Israele non aveva l’intenzione
di lasciare e abbandonare tutto. Il secondo punto è Gerusalemme, ma Gerusalemme fa
parte del problema territoriale. Per Israele, Gerusalemme è la capitale esclusiva
di Israele. Se accetta di condividere e dare la vecchia città ai palestinesi tutto
andrebbe bene. Se non accettano, sarebbe un problema grosso e dunque sono due i problemi:
il ritiro e Gerusalemme come città.
D. – Come i cristiani
di Terra Santa hanno accolto la notizia della ripresa dei negoziati?
R.
– Noi veramente preghiamo da lungo tempo, come cristiani, per la ripresa dei negoziati,
dunque siamo contenti. Tuttavia, nello stesso tempo, c’è un po’ di dubbio sul buon
esito perché questa è l’ennesima volta che riprendono le trattative, quindi abbiamo
un ottimismo limitato.
D. – Israele e Autorità Nazionale
Palestinese saranno in grado, nel tempo, di portare avanti un dialogo duraturo abbandonando
le contrapposizioni e negoziando su un piano di collaborazione?
R.
– Penso che se dipendesse solo da palestinesi e israeliani non ci riuscirebbero. Tutto
dipende da quanta pressione gli americani sono capaci di esercitare sui due e specialmente
su Israele per ritirarsi.
D. – Un buon esito dei negoziati
potrà interrompere l’esodo dei cristiani, riportando in Terra Santa tanti di coloro
che sono andati via?
R. – La pace sarebbe il migliore
fattore per fermare l’esodo dei cristiani di Terra Santa con il miglioramento della
situazione politica ed economica. Per quanto riguarda il ritorno dei cristiani tutto
dipende dall’accordo perché fra le clausole imposte da Israele finora c’era il non
ritorno dei profughi palestinesi, quelli che non hanno carta di identità palestinese
che vuol dire quanti erano qui nel 1967. Tutti quelli che sono partiti prima del 1967
praticamente finora sono sotto boicottaggio israeliano per tornare. Dunque tutto dipende
dai negoziati e anche dalla buona volontà dei cristiani che sono autorizzati a ritornare,
perché molti di loro stando bene fuori non vogliono ritornare. Speriamo e preghiamo
perché un certo numero accetti di ritornare in caso fossero autorizzati, dopo i negoziati.
D. – L’obiettivo principale resta comunque quello dei
due Stati. E’ veramente possibile arrivare a questo traguardo?
R.
– Due Stati sì, perché c’è già una promessa americana. Senza i due Stati non c’è pace.
Anche Benedetto XVI, quando era il Terra Santa, lo ha detto. Ma la domanda è: lo Stato
palestinese che nascesse sarà duraturo, sarà capace di avere tutte le componenti di
uno Stato? Ciò vuole dire avere tutti i suoi territori, la sua capitale, le condizioni
di vita. Dunque, non solo uno Stato, ma uno Stato "valido", con tutte le condizioni
per vivere.