Mons. Bruno Forte: la vera autonomia è dipendere dalla verità
Seicento teologi moralisti, provenienti da 73 Paesi di tutto il mondo, si sono ritrovati
nei giorni scorsi a Trento per un Convegno mondiale che ha affrontato i temi più scottanti
di questo periodo storico: dalla bioetica alla comunione ecclesiale, dalle principali
questioni morali e sociali al concetto di verità. Massicia la presenza dei laici (circa
il 40%), 130 le donne teologhe invitate. Ad aprire e chiudere i lavori le relazioni
di due vescovi-teologi, mons. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, e mons.
Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga. Fabio Colagrande ha chiesto
a mons. Bruno Forte il significato di questo incontro internazionale:
R. - Nel
villaggio globale le sfide sono sempre più globali e dunque la riflessione teologico-morale,
dovunque sia vissuta nei contesti più diversi della storia, si confronta con sfide
comuni – basti pensare, per esempio, soltanto a quella della bioetica – e quindi c’è
un bisogno di confrontare insieme le sfide e i problemi. C’è poi un’altra esigenza,
più profonda, che è quella di sperimentare, vivere e testimoniare la comunione della
Chiesa. Il teologo moralista, come ogni teologo, non è un avventuriero dell’intelligenza,
ma deve percorrere i mari e la storia sulla barca di tutti che è la barca di Pietro,
dove al timone appunto c’è Pietro, e con lui ci sono i vescovi, c’è il Magistero.
Credo che il senso profondo e positivo di questo incontro sia stato proprio il voler
sottolineare, come più volte mi ha ripetuto l’amico Antonio Autiero, che è stato l’organizzatore
principale di questo convegno, teologo di fiducia della Conferenza episcopale tedesca:
non si può elaborare un pensiero etico-morale oggi, senza un forte radicamento di
comunione.
D. - Uno dei punti centrali della sua introduzione, mons.
Forte, è stato il concetto che non c’è etica senza trascendenza: cosa significa?
R.
- Io qui faccio mia un’analisi di Romano Guardini, il quale diceva che il grande dramma
dell’epoca moderna, quella che ha portato a tutte le avventure dei totalitarismi e
delle ideologie, è stata l’esasperazione dell’idea di autonomia. Quando un uomo vuol
fare da sé, da solo, allora tutto diventa possibile nel bene e nel male, ma si perde
l’ancoraggio e il riferimento che è necessario. Dunque, perché ci sia etica, è necessaria
un’eteronomia fondatrice, che non significa annegare il valore della libertà e del
discernimento da parte dell’uomo, ma significa dire che si è tanto più liberi quanto
più questa nostra libertà si àncora su un riferimento di verità, di bene assoluto.
E’ un po’ il messaggio che ci ha dato il Magistero morale in questi ultimi anni: pensiamo
alla “Veritatis splendor”, pensiamo alla “Donum vitae” e così via.
D.
- Che non ci sia etica senza trascendenza vuol dire anche in qualche modo che l’etica,
oggi, nel villaggio globale va letta non in chiave individualista, ma sempre come
un’etica che mira anche a una giustizia sociale?
R. - Non c’è etica
dove non c’è il riconoscimento di una alterità, che è prima di tutto quella del prossimo,
dell’immediato, “tu” a noi vicino. Per essere eticamente responsabile, per essere
corrispondente a qualcuno io devo riconoscere la dignità di questo qualcuno. Ma questo
“tu” non è soltanto il “tu” immediato e vicino, è in generale il “tu” della socialità,
ed ecco allora una seconda dimensione di questa trascendenza che è quella della solidarietà,
della responsabilità verso altri. E finalmente, in questo movimento di trascendenza,
noi riconosciamo un’esigenza assoluta che è quella dell’imperativo morale. Ebbene,
questo avviene da un “tu” ultimo e trascendente che è il “Tu” divino, quello che la
morale teologica annuncia in riferimento a Gesù Cristo, Rivelazione di Dio. Senza
questo “Tu”, l’uomo è solo e quando l’uomo è solo anche la sua autonomia si indebolisce
perché non trova un aggancio ultimo e liberante che ci accomuni tutti e esiga da tutti
obbedienza alla verità e al servizio degli altri.