Mentre a livello internazionale si tenta di far riprendere i negoziati diretti tra
israeliani e palestinesi, il muro che separa Israele dalla Cisgiordania ha compiuto
un triste anniversario. Il 9 luglio di sei anni fa la Corte internazionale di giustizia
dichiarava illegale la barriera, che era stata iniziata due anni prima. Fino ad oggi
sono stati costruiti 707 km di muro, che ricoprono oltre il 60% del confine. Secondo
l’OCHA, l’Ufficio per il coordinamento delle questioni umanitarie dell’ONU, moltissimi
contadini palestinesi sono stati separati dai loro campi e in troppi hanno grandi
difficoltà a raggiungere gli ospedali di Gerusalemme Est. Le porte nel muro sono aperte
solo per alcune ore. Israele, da parte sua, continua a ignorare la sentenza adducendo
motivi di sicurezza. In ogni caso, l’isolamento della Cisgiordania mette a dura prova
la popolazione. Fausta Speranza ne ha parlato con mons. William Shomali,
vescovo ausiliare della diocesi patriarcale di Gerusalemme dei Latini:
R.
– La situazione adesso è di chiusura totale. La cosa più grave non è solo quella del
muro, ma è la politica dietro al muro, che impedisce ai palestinesi di andare e venire
con libertà, impedisce la libertà di circolazione, la libertà di commercio e specialmente
separa Gerusalemme dalle altre parti dei Territori. Gerusalemme è stata occupata nel
1967, durante la Guerra dei sei giorni, ma subito dopo la guerra è stata dichiarata
parte integrante di Israele. E qui il grosso problema, per cui Gerusalemme è rivendicata
dai due popoli come loro capitale. Come vede, il problema del muro è più grave del
fatto di volere soltanto separare, perché impedisce anche di arrivare al punto più
importante per i palestinesi: Gerusalemme.
D. – Giovanni
Paolo II raccomandava ponti e non muri, il muro divide anche la popolazione, anche
le anime, anche il vissuto della gente?
R. – Sì, sì.
Infatti, bisogna risolvere il problema del muro in un contesto più grande, quello
di un negoziato di pace. Non si può risolvere un solo problema, perché fa parte di
una situazione di sfiducia fra due popoli, di un problema di fondo fra due popoli.
In realtà noi preghiamo e aspettiamo una soluzione integrale, dove tutti i punti -
Gerusalemme, il futuro Stato palestinese, il muro, il problema delle acque, il ritorno
dei profughi, il problema degli insediamenti - i tanti problemi siano risolti in un
clima di fiducia. Questo clima non c’è ancora, ma sappiamo che il presidente degli
Stati Uniti Obama sta lavorando, impegnandosi seriamente per risolvere questo problema.
Speriamo che il Signore lo aiuti a convincere specialmente Israele, che ha la chiave
della soluzione, ad accettare la legittimità internazionale.
D.
– Da questo punto di vista lei accennava all’impegno della comunità internazionale,
degli Stati Uniti in particolare, per la ripresa di colloqui diretti. Al momento,
quello che si riesce a fare sono soltanto colloqui indiretti. Ecco, siamo in una situazione
di stallo da settembre del 2008. Lo stallo su questa terra così disastrata, dopo anni
di guerra, che cosa significa? Non può significare soltanto stare fermi, significa
anche tornare indietro, non è così?
R. – Sì, chi non
avanza va indietro. Siamo in una situazione statica, andiamo indietro perché c’è una
volontà di non risolvere. Come accennato c’è un problema ideologico e grave. Non c’è
solo un problema territoriale politico o di conflitto militare, ma dietro tutto questo
c’è un problema grosso, c’è una situazione, un atteggiamento di fondo, nel quale Israele
non accetta il termine di “territori occupati”. Allora se Israele non ha rubato niente,
perché fare negoziati? C’è, dunque, un problema grosso: Israele dice che ha recuperato
i territori che appartengono ad Israele da 3000 anni. Allora siamo davanti ad un problema
religioso e storico. Abbiamo bisogno veramente di grandi preghiere e che il Signore
metta la sua mano per risolvere questo problema.