Bambini sahrawi in Italia per ridare voce e dignità a un popolo dimenticato
Bambini sahrawi in Italia per far conoscere la loro storia, usufruire di assistenza
medica e beneficiare di programmi educativi. Sono circa 300 i minori giunti dall’Algeria
- dove dal 1975 il popolo sahrawi è rifugiato – ospitati in una decina di regioni.
Il loro soggiorno coinvolge anche famiglie in iniziative di interscambio e a Roma,
per il quinto anno consecutivo, è l’associazione “Bambini più diritti” ad offrire
ad alcuni di loro check-up medici, escursioni e momenti di socializzazione. Tiziana
Campisi ha chiesto al suo presidente, Matteo Mennini, com’è articolato
il progetto riservato ai bambini a Roma, una delle tante iniziative pensate in tutto
il territorio nazionale per aiutare i circa 200 mila profughi che da anni, tra notevoli
difficoltà, vivono di aiuti umanitari:
R. – Il
progetto di accoglienza ai bambini dei campi profughi sahrawi nasce 5, 6 anni fa,
con un’attenzione per la situazione dei campi profughi e con una doppia linea di intervento.
Da una parte, l’accoglienza dei bambini, qui in Italia, nel periodo estivo. Dall’altra
parte, un intervento forte di rafforzamento del sistema scolastico nei campi profughi
sahrawi. Noi ci occupiamo della realtà romana e accogliamo qui una ventina di bambini.
Sul nazionale, c’è un’accoglienza che riguarda circa 300 bambini in un’area ed è molto
importante. E sostanzialmente l’attività di assistenza riguarda i controlli e quindi
un’attenzione medico-sanitaria forte, considerando alcune problematiche specifiche
del popolo sahrawi, come per esempio la celiachia. E’ il popolo con il più alto tasso
di celiachia al mondo. E poi altra linea forte di intervento è quella educativa. L’obiettivo
fortissimo del progetto è anche quello di sensibilizzazione politica. Della causa
sahrawi non se ne parla e le ragioni per cui 200 mila persone vivono da 35 anni nei
campi profughi non vengono mai ospitate sulle colonne dei nostri quotidiani e tantomeno
quello che sta avvenendo nel Sahara occidentale occupato dal Marocco. Quindi, è un
progetto che vuole dare voce a chi appunto voce non ce l’ha.
D.
– Come avete pensato questo soggiorno per questi bambini? In che modo avete programmato
le loro giornate? In quali attività li impegnate?
R.
– L’organizzazione viene pensata anche in funzione della partecipazione cittadina,
partecipazione cittadina che si esprime anche nella preparazione. Nei mesi precedenti
c’è tutto un lavoro con la gente di sensibilizzazione, ma anche di organizzazione
pratica. Per quanto riguarda il mese di luglio, i primi venti giorni se ne vanno per
i controlli medici, più che per altre attività. Il mercoledì sera, per esempio, lo
apriamo alla gente, organizziamo delle serate per stare insieme con i bambini e via
dicendo. La seconda parte del mese di luglio ci leghiamo ad altre realtà, che ci ospitano:
comuni, altre associazioni, a volte banche che vogliono organizzare degli eventi interni,
dove noi portiamo i bambini e facciamo conoscere la loro situazione, ma i bambini
hanno anche l’opportunità di vivere delle bellissime esperienze. I primi dieci giorni
di agosto siamo ospiti del comune di Pian Castagnaio, in provincia di Siena, sul Monte
Amiata, che da alcuni anni collabora con noi nell’accoglienza, e visiteremo alcuni
comuni nella seconda parte del mese di agosto, vicino Roma – Morlupo e Tivoli – e
il 21 agosto i bambini ripartiranno.
D. – Come accolgono
i bambini italiani questi bambini?
R. – I bambini italiani,
posso dire, che li accolgono innanzitutto con una certa curiosità. Si rendono conto,
grazie alla presenza dei bambini sahrawi nelle loro case, quando li vanno a trovare,
o nelle cose che organizziamo, che chiudere l’acqua mentre ci si lava i denti con
lo spazzolino è segno di rispetto per chi l’acqua non ce l’ha, cosa che i bambini
saharawi fanno sistematicamente quando vengono da noi; o l’attesa che tutti abbiano
il piatto pieno a tavola, prima di iniziare. Sono dei gesti che appartengono, non
solo ad una cultura diversa dalla nostra, ma anche all’attenzione, alle poche cose
che si hanno a casa loro. E questo credo che sia molto importante per i nostri bambini,
perché entrano a contatto con una realtà che, altrimenti, rischiano di vedere confinata
nei documentari in televisione.