Kirghizistan, vigilia del referendum istituzionale in un Paese in crisi
Vigilia di referendum costituzionale oggi in Kirghizistan. Il Paese centroasiatico,
devastato nelle ultime settimane dagli scontri interetnici costati centinaia di vittime
e migliaia di sfollati. Oltre due milioni di elettori saranno chiamati a riformare
il sistema istituzionale retto, da aprile scorso, dal governo ad interim di
Roza Otunbàieva, insediatosi dopo la rivolta che ha deposto il presidente Bakiev.
Nella nuova bozza costituzionale, più poteri al Parlamento e più diritti al cittadino.
Ma sul voto pesa la minaccia di violenze: i militari controllano il territorio anche
se il coprifuoco è stato revocato. Per una valutazione di questo delicato appuntamento
elettorale, Gabriella Ceraso ha parlato con Fulvio Scaglione, vice direttore
di "Famiglia Cristiana" ed esperto di Europa orientale:
R. –
L’intenzione del premier ad interim Roza Otunbàieva, con questo referendum, è quello
di stabilizzare la situazione facendo capire alla popolazione che c’è una volontà
di democratizzazione. Questa, però, è in qualche modo anche la sintesi dei problemi
che il Kirghizistan ha avuto dalla fine dell’Unione Sovietica, perché tutti i leader
si sono presentati come dei democratizzatori. Questo ci dice che i problemi reali
del Paese non sono tanto nella struttura istituzionale e costituzionale ma, piuttosto,
altrove.
D. – Che cosa significherebbe comunque avere una Repubblica
parlamentare in quella posizione dell’Asia?
R. – Sarebbe un bel segno,
anche per tutta la regione. Tra l’altro il Kirghizistan ha una posizione - paradossalmente,
nonostante tutti i problemi delle ultime settimane – abbastanza favorevole, perché
è un Paese che né l’Unione Sovietica né gli Stati Uniti, che sono i due grandi attori
internazionali della regione, hanno interesse a destabilizzare ma, al contrario, hanno
interesse a stabilizzare, perché hanno delle basi militari, per l’Afghanistan. Quindi,
se si riuscisse ad approfittare di questa felice congiuntura internazionale, sarebbe
davvero un bel colpo.
D. – E la Otunbàieva ha insistito molto per un
voto, per un “sì”, ovviamente. I riflessi, dall’esito di questa prova, per il suo
governo ad interim?
R. – Un successo del “sì” sarebbe, neanche tanto
indirettamente, un “sì” al suo governo, alla sua figura, al suo tentativo politico.
C’è quindi da aspettarsi che un “no” non sia tanto un “no” ad un maggiore grado di
parlamentarismo nella Repubblica, ma piuttosto un “no” a questa svolta e forse – anche
indirettamente – un “sì” al regime che è stato da poco deposto.
D. –
Ma la gente è pronta, secondo lei, ad esprimersi politicamente oppure è solo un desiderio
di pace quello che muove la popolazione?
R. – Credo che questo sia un
referendum che sta più a cuore ai vertici che non alla base. Tutti i regimi, negli
ultimi due decenni, hanno varato delle riforme costituzionali. Non credo che questo
costituisca un precedente esaltante. La popolazione ha poi altri problemi, che sono
i problemi dell’economia, la frammentazione etnica notevole. Però mettiamola così:
questo referendum alla gente, sicuramente, non può fare del male. Qualche necessità
di avere qualcosa in cui sperare c’è.
D. – E sul fronte pace e stabilizzazione,
su cui anche domenica scorsa ha insistito il Papa, potrà influire il voto?
R.
– Può in parte funzionare, ma non dimentichiamo che anche negli scontri di queste
settimane, c’è un gioco d’interessi, di clan locali, di minoranze e maggioranze etniche,
di commerci più o meno leciti che hanno giocato in maniera pesante la loro parte.
Quindi, non è che su questo referendum si possono puntare poi speranze esagerate,
sarebbe anche ingiusto.