L’impegno dei cristiani per la riconciliazione nel Medio Oriente: la riflessione
dell’islamologo padre Khalil Samir
Nella martoriata regione del Medio Oriente, i cristiani sono chiamati “a portare uno
spirito di riconciliazione basata sulla giustizia e l’equità” per israeliani e palestinesi.
E’ uno dei passaggi più significativi dell’Instrumentum Laboris, il documento
di lavoro del Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente, consegnato ai presuli dal Papa
a Cipro lo scorso 6 giugno. Proprio sull’impegno per la pace dei cristiani in Terra
Santa, Fabio Colagrande ha intervistato il padre gesuita Samir Khalil Samir,
docente di Storia della cultura araba e Islamologia all’Università Saint-Joseph di
Beirut e al Pontificio Istituto Orientale:
R.
– Se i cristiani non intervengono in quanto cristiani, il conflitto israelo-palestinese
non finirà mai. Perché? Perché il musulmano, oggi, ha islamizzato il problema israelo-palestinese,
e l’ebreo fa lo stesso. Cioè, l’uno dice: “Questa terra è mia perché fa parte della
‘umma’ islamica”, e l’ebreo fa lo stesso. Israele, per contro, pretende: “Questa Terra
è nostra perché Dio ce l’ha data”, anche se tante volte non parlano di Dio, ma indirettamente
è questo! E’ molto difficile, ma non impossibile, per un musulmano di non pensare
in termini di “umma”, ed è molto difficile per un ebreo – soprattutto dopo la Shoa
– di non pensare: “Vogliamo proteggerci e creare uno Stato, affinché non accada di
nuovo ciò che è successo in Germania”. L’unico modo di ottenere i propri diritti è
la legge internazionale. A questo punto, il cristiano è l’unico a portare avanti questo
argomento.
D. Quindi, il cristiano che cosa difende?
R.
- La giustizia e il diritto. E non ci sarà pace senza giustizia, e non ci saranno
giustizia e pace se non si accetta di dialogare, di fare delle concessioni. Come diceva
Giovanni Paolo II in uno dei suoi messaggi del primo gennaio, per la Giornata mondiale
per la pace: “Non ci sarà pace senza giustizia, ma non c’è giustizia senza perdono”.
Infatti, è necessario accettare situazioni ingiuste e perdonare, nella consapevolezza
che anche io ho commesso ingiustizie. Se poi vogliamo arrivare a delle concessioni,
non possiamo applicare strettamente una politica del “ti do questo, mi dai quello”.
Se vogliamo vivere insieme, nella comunità delle nazioni, dobbiamo dire: “Va bene.
So che mi hai fatto questo torto: ti perdono”, e l’altro risponderà: “Anche io, perché
vogliamo guardare al futuro”. Ora, la mia esperienza mi dimostra che, per il momento,
solo il cristiano rispetta quest’ultimo punto. Lo scopo è costruire la pace. In questo
momento, secondo la mia esperienza, solo la visione cristiana è capace di proporre
la pace come un bene superiore.
D. La politica portata
avanti da israeliani e palestinesi cosa ha dimostrato fino ad oggi?
R.
- La politica dimostra che senza pace i due ci perdono: Israele sta soffrendo perché
non trova la sicurezza e perché ha subito delle vittime; i palestinesi, non solo perché
hanno perso delle persone, ma hanno perso tutto: la terra, la vita, l’onore e la dignità.
Ci sono dei cittadini che lottano per la pace, ma non sono abbastanza forti per imporre
ai loro governi di dire: “La pace vale più che conquistare un pezzo di terra”. (Montaggio
a cura di Maria Brigini)