Anno Sacerdotale: la testimonianza di don Felipe Lopez, prete del Salvador e parroco
alle porte di Roma
Un sacerdote fra la gente, un prete “amico” e guida insieme, capace di farsi incontro
all’altro per ascoltarlo e accoglierlo, e testimoniare con la sua vicinanza l’amore
di Cristo che rinnova. Fra i terremotati d’Abruzzo, come fra i poveri e le persone
sole. E’ don Felipe Lopez, 40 anni, del Salvador, parroco a Tivoli, alle porte
di Roma, dove è vicedirettore della Caritas cittadina. Al microfono di Claudia
Di Lorenzi, racconta che la sua vocazione è nata seguendo l’esempio di altri sacerdoti,
autentici apostoli del Vangelo:
R.
– La nascita della mia vocazione è avvenuta all’interno di una comunità parrocchiale,
in un oratorio, tra un gruppo di ragazzi, di chierichetti. C’è stato soprattutto un
vescovo che a noi ragazzi di quel tempo ha dato qualcosa in più: il vescovo Romero.
La sua maniera di essere con il popolo, con la comunità. Quando lui è morto, io avevo
dieci anni. Ero affascinato da questa figura: lo vedevo anche nel mio parroco, il
sacerdote-pastore in mezzo alla gente. Mi ricordo le cose più belle vissute: il mio
parroco che giocava a calcio con me, il pastore che considera sue le sue pecore fino
a dare anche la vita.
D. – Poi, la decisione di lasciare
il suo Paese per venire a studiare in Italia: come ha vissuto questo importante cambiamento?
R.
– E’ sempre difficile, perché devi inserirti in una nuova vita, ci sono tante cose
diverse, anche una cultura abbastanza diversa: cercare di imparare una lingua, capire
le persone con cui vivevo… Le cose hanno iniziato ad andare meglio per me quando ho
capito che non c’è nessuna differenza nell’essere sacerdote in Salvador o in qualsiasi
altra parte del mondo: alla fine, sei un pastore e lo sei dovunque tu sia. Dopo tre
anni, mi hanno chiesto di fare il parroco in una piccola parrocchia della diocesi:
anche questo ha dato un nuovo senso alla mia vita, offrire il tuo sacerdozio ad una
Chiesa che ha anche bisogno di vocazioni, di sacerdoti. Questo ti dà anche un cuore
sacerdotale universale.
D. – Questo mettersi al servizio
di Dio nella Chiesa e fra la gente ha attratto anche molti non credenti…
R.
– Mi ricordo che in parrocchia c’erano anche persone non credenti. Ma se anche a loro
ti manifesti come il pastore, come qualcuno che è vicino a loro semplicemente perché
vuoi loro bene, penso che difficilmente si possa rimanere indifferenti. Il mio modo
è stato questo: mi sono dimostrato amico, sono andato a prendere il caffè insieme
a loro al bar del paese… Ricordo che un giorno, proprio giocando a calcetto con uno
di questi ragazzi che non era battezzato, mentre giocavamo è nato un discorso più
profondo. Il modo è questo: mostrare la tua umanità tra di loro. Al resto, poi, ci
pensa Dio.
D. – Infine, il trasferimento a Tivoli e
l’impegno nella Caritas: quale esperienza ha potuto fare in questi anni?
R.
– Quando parliamo di Caritas, pensiamo immediatamente all’agenzia che risolve le necessità.
Noi ci prendiamo cura sostanzialmente della solitudine delle persone, che sembra essere
il bisogno più profondo: persone che hanno tutto, ma interiormente sono vuote e che
sicuramente non hanno nemmeno qualcuno con cui scambiare una parola. Noi siamo abituati
a veder venire alla Caritas persone che vengono alla ricerca di “qualcosa”, ma la
grande novità che sto rilevando è che le persone in realtà vengono alla ricerca di
“qualcuno”! Spesso non riusciamo a risolvere il loro problema, ma riusciamo a lasciarli
con un sorriso o con la consapevolezza di aver trovato qualcuno con cui scambiare
una parola, con cui condividere qualcosa.