Cari fratelli e sorelle, nella celebrazione solenne della Pentecoste
siamo invitati a professare la nostra fede nella presenza e nell’azione dello Spirito
Santo e a invocarne l’effusione su di noi, sulla Chiesa e sul mondo intero. Facciamo
nostra, dunque, e con particolare intensità, l’invocazione della Chiesa stessa: Veni,
Sancte Spiritus! Un’invocazione tanto semplice e immediata, ma insieme straordinariamente
profonda, sgorgata prima di tutto dal cuore di Cristo. Lo Spirito, infatti, è il dono
che Gesù ha chiesto e continuamente chiede al Padre per i suoi amici; il primo e principale
dono che ci ha ottenuto con la sua Risurrezione e Ascensione al Cielo. Di
questa preghiera di Cristo ci parla il brano evangelico odierno, che ha come contesto
l’Ultima Cena. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete
i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché
rimanga con voi per sempre» (Gv 14,15-16). Qui ci viene svelato il cuore orante di
Gesù, il suo cuore filiale e fraterno. Questa preghiera raggiunge il suo vertice e
il suo compimento sulla croce, dove l’invocazione di Cristo fa tutt’uno con il dono
totale che Egli fa di se stesso, e così il suo pregare diventa per così dire il sigillo
stesso del suo donarsi in pienezza per amore del Padre e dell’umanità: invocazione
e donazione dello Spirito s’incontrano, si compenetrano, diventano un’unica realtà.
«E io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi
per sempre». In realtà, la preghiera di Gesù – quella dell’Ultima Cena e quella sulla
croce – è una preghiera che permane anche in Cielo, dove Cristo siede alla destra
del Padre. Gesù, infatti, vive sempre il suo sacerdozio d’intercessione a favore del
popolo di Dio e dell’umanità e quindi prega per tutti noi chiedendo al Padre il dono
dello Spirito Santo. Il racconto della Pentecoste nel libro degli Atti degli
Apostoli – lo abbiamo ascoltato nella prima lettura (cfr At 2,1-11) – presenta il
“nuovo corso” dell’opera di Dio iniziato con la risurrezione di Cristo, opera che
coinvolge l’uomo, la storia e il cosmo. Dal Figlio di Dio morto e risorto e ritornato
al Padre spira ora sull’umanità, con inedita energia, il soffio divino, lo Spirito
Santo. E cosa produce questa nuova e potente auto-comunicazione di Dio? Là dove ci
sono lacerazioni ed estraneità, essa crea unità e comprensione. Si innesca un processo
di riunificazione tra le parti della famiglia umana, divise e disperse; le persone,
spesso ridotte a individui in competizione o in conflitto tra loro, raggiunte dallo
Spirito di Cristo, si aprono all’esperienza della comunione, che può coinvolgerle
a tal punto da fare di loro un nuovo organismo, un nuovo soggetto: la Chiesa. Questo
è l’effetto dell’opera di Dio: l’unità; perciò l’unità è il segno di riconoscimento,
il “biglietto da visita” della Chiesa nel corso della sua storia universale. Fin dall’inizio,
dal giorno di Pentecoste, essa parla tutte le lingue. La Chiesa universale precede
le Chiese particolari, e queste devono sempre conformarsi a quella, secondo un criterio
di unità e universalità. La Chiesa non rimane mai prigioniera di confini politici,
razziali e culturali; non si può confondere con gli Stati e neppure con le Federazioni
di Stati, perché la sua unità è di genere diverso e aspira ad attraversare tutte le
frontiere umane. Da questo, cari fratelli, deriva un criterio pratico di
discernimento per la vita cristiana: quando una persona, o una comunità, si chiude
nel proprio modo di pensare e di agire, è segno che si è allontanata dallo Spirito
Santo. Il cammino dei cristiani e delle Chiese particolari deve sempre confrontarsi
con quello della Chiesa una e cattolica, e armonizzarsi con esso. Ciò non significa
che l’unità creata dallo Spirito Santo sia una specie di egualitarismo. Al contrario,
questo è piuttosto il modello di Babele, cioè l’imposizione di una cultura dell’unità
che potremmo definire “tecnica”. La Bibbia, infatti, ci dice (cfr Gen 11,1-9) che
a Babele tutti parlavano una sola lingua. A Pentecoste, invece, gli Apostoli parlano
lingue diverse in modo che ciascuno comprenda il messaggio nel proprio idioma. L’unità
dello Spirito si manifesta nella pluralità della comprensione. La Chiesa è per sua
natura una e molteplice, destinata com’è a vivere presso tutte le nazioni, tutti i
popoli, e nei più diversi contesti sociali. Essa risponde alla sua vocazione, di essere
segno e strumento di unità di tutto il genere umano (cfr Lumen gentium,
1), solo se rimane autonoma da ogni Stato e da ogni cultura particolare. Sempre e
in ogni luogo la Chiesa dev’essere veramente, cattolica e universale, la casa di tutti
in cui ciascuno si può ritrovare. Il racconto degli Atti degli Apostoli
ci offre anche un altro spunto molto concreto. L’universalità della Chiesa viene espressa
dall’elenco dei popoli, secondo l’antica tradizione: “Siamo Parti, Medi, Elamiti…”,
eccetera. Si può osservare qui che san Luca va oltre il numero 12, che già esprime
sempre un’universalità. Egli guarda oltre gli orizzonti dell’Asia e dell’Africa nord-occidentale,
e aggiunge altri tre elementi: i “Romani”, cioè il mondo occidentale; i “Giudei e
prosèliti”, comprendendo in modo nuovo l’unità tra Israele e il mondo; e infine “Cretesi
e Arabi”, che rappresentano Occidente e Oriente, isole e terra ferma. Questa apertura
di orizzonti conferma ulteriormente la novità di Cristo nella dimensione dello spazio
umano, della storia delle genti: lo Spirito Santo coinvolge uomini e popoli e, attraverso
di essi, supera muri e barriere. A Pentecoste lo Spirito Santo si manifesta
come fuoco. La sua fiamma è discesa sui discepoli riuniti, si è accesa in essi e ha
donato loro il nuovo ardore di Dio. Si realizza così ciò che aveva predetto il Signore
Gesù: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!»
(Lc 12,49). Gli Apostoli, insieme ai fedeli delle diverse comunità, hanno portato
questa fiamma divina fino agli estremi confini della Terra; hanno aperto così una
strada per l’umanità, una strada luminosa, e hanno collaborato con Dio che con il
suo fuoco vuole rinnovare la faccia della terra. Com’è diverso questo fuoco da quello
delle guerre e delle bombe! Com’è diverso l’incendio di Cristo, propagato dalla Chiesa,
rispetto a quelli accesi dai dittatori di ogni epoca, anche del secolo scorso, che
lasciano dietro di sé terra bruciata. Il fuoco di Dio, il fuoco dello Spirito Santo,
è quello del roveto che divampa senza bruciare (cfr Es 3,2). E’ una fiamma che arde,
ma non distrugge; che, anzi, divampando fa emergere la parte migliore e più vera dell’uomo,
come in una fusione fa emergere la sua forma interiore, la sua vocazione alla verità
e all’amore. Un Padre della Chiesa, Origene, in una delle sue Omelie su
Geremia, riporta un detto attribuito a Gesù, non contenuto nelle Sacre Scritture ma
forse autentico, che recita così: «Chi è presso di me è presso il fuoco» (Omelia su
Geremia L. I [III]). In Cristo, infatti, abita la pienezza di Dio, che nella Bibbia
è paragonato al fuoco. Abbiamo osservato poco fa che la fiamma dello Spirito Santo
arde ma non brucia. E tuttavia essa opera una trasformazione, e perciò deve consumare
qualcosa nell’uomo, le scorie che lo corrompono e lo ostacolano nelle sue relazioni
con Dio e con il prossimo. Questo effetto del fuoco divino però ci spaventa, abbiamo
paura di essere “scottati”, preferiremmo rimanere così come siamo. Ciò dipende dal
fatto che molte volte la nostra vita è impostata secondo la logica dell’avere, del
possedere e non del donarsi. Molte persone credono in Dio e ammirano la figura di
Gesù Cristo, ma quando viene chiesto loro di perdere qualcosa di se stessi, allora
si tirano indietro, hanno paura delle esigenze della fede. C’è il timore di dover
rinunciare a qualcosa di bello, a cui siamo attaccati; il timore che seguire Cristo
ci privi della libertà, di certe esperienze, di una parte di noi stessi. Da un lato
vogliamo stare con Gesù, seguirlo da vicino, e dall’altro abbiamo paura delle conseguenze
che ciò comporta. Cari fratelli e sorelle, abbiamo sempre bisogno di sentirci
dire dal Signore Gesù quello che spesso ripeteva ai suoi amici: “Non abbiate paura”.
Come Simon Pietro e gli altri, dobbiamo lasciare che la sua presenza e la sua grazia
trasformino il nostro cuore, sempre soggetto alle debolezze umane. Dobbiamo saper
riconoscere che perdere qualcosa, anzi, se stessi per il vero Dio, il Dio dell’amore
e della vita, è in realtà guadagnare, ritrovarsi più pienamente. Chi si affida a Gesù
sperimenta già in questa vita la pace e la gioia del cuore, che il mondo non può dare,
e non può nemmeno togliere una volta che Dio ce le ha donate. Vale dunque la pena
di lasciarsi toccare dal fuoco dello Spirito Santo! Il dolore che ci procura è necessario
alla nostra trasformazione. E’ la realtà della croce: non per nulla nel linguaggio
di Gesù il “fuoco” è soprattutto una rappresentazione del mistero della croce, senza
il quale non esiste cristianesimo. Perciò, illuminati e confortati da queste parole
di vita, eleviamo la nostra invocazione: Vieni, Spirito Santo! Accendi in noi il fuoco
del tuo amore! Sappiamo che questa è una preghiera audace, con la quale chiediamo
di essere toccati dalla fiamma di Dio; ma sappiamo soprattutto che questa fiamma –
e solo essa – ha il potere di salvarci. Non vogliamo, per difendere la nostra vita,
perdere quella eterna che Dio ci vuole donare. Abbiamo bisogno del fuoco dello Spirito
Santo, perché solo l’Amore redime. Amen.