2010-05-21 14:36:17

La realtà della Chiesa negli Emirati Arabi Uniti: la testimonianza di mons. Hinder


Benedetto XVI ha ricevuto ieri il primo ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti presso la Santa Sede. Nel suo discorso il Papa ha apprezzato la libertà di culto che vige in questo Stato musulmano. Ma cosa si attende adesso la Chiesa da questo Paese che finalmente ha un suo rappresentante presso la Sede Apostolica? Emer McCarthy lo ha chiesto al vicario apostolico d’Arabia, mons. Paul Hinder:RealAudioMP3

R. – Ora, evidentemente, io aspetto che ci sia un rapporto molto più facile per quanto riguarda questioni comuni come quella della situazione della Chiesa qui negli Emirati, ma anche nell’ambito del dialogo interreligioso, dove le due parti sono impegnate – il Vaticano da lungo tempo, lo sappiamo bene, ma anche qui negli Emirati ci sono delle iniziative in corso.

 
D. – Nel suo discorso il Papa ha sottolineato l’apertura degli Emirati alla libertà di culto …

 
R. – Evidentemente è una libertà di culto che, seppur limitata, paragonata però a quella che esiste in altri Paesi nella regione, è relativamente generosa. Noi abbiamo sette parrocchie cattoliche, al momento, sparse negli Emirati. All’interno degli ambienti fisici che ci sono stati riconosciuti come luoghi di culto noi siamo completamente liberi: possiamo organizzare anche manifestazioni, sempre all’interno delle mura del nostro ‘compound’. I limiti interverrebbero qualora volessimo uscire da questi spazi a noi attribuiti per le parrocchie, ma è già – paragonato alla situazione di altri Paesi – un progresso enorme. E questo si fonda su una tradizione, perché il fondatore degli Emirati Arabi Uniti, il famoso Sheik Zayed, e già prima il suo predecessore, ci avevano riconosciuto questa possibilità. E questi buoni rapporti, che originano nel passato, sono stati anche una delle ragioni per cui il vescovo prese residenza ad Abu Dhabi quando fummo obbligati a lasciare Aden, nello Yemen, che è stata storicamente la prima sede del vicario apostolico in Arabia. Ora, è vero: nelle grandi parrocchie come Abu Dhabi o Dubai abbiamo migliaia e migliaia di persone che ogni venerdì e ogni domenica vengono in chiesa; quando ci sono le grandi feste i posti non bastano, dobbiamo ripetere le celebrazioni soltanto per garantire almeno ad una certa maggioranza la possibilità di poter partecipare ai servizi liturgici delle grandi feste.

 
D. – Accompagnare i fedeli ad essere testimoni del Vangelo nei Paesi arabi, quanto è difficile? Anche il Papa ha sottolineato che questi fedeli sono per la maggior parte immigrati: ci può parlare delle loro realtà?

 
R. – E’ vero: sono migranti, provenienti un po’ da tutto il mondo, in particolare dalle Filippine, dall’India, soprattutto dai Paesi asiatici, ma anche da altre parti del mondo, inclusi Paesi di lingua araba con minoranze più o meno grandi di fede cristiana, come il Libano, la Siria o altri Paesi; e questo, nelle nostre parrocchie, produce una sorta di miscellanea. Una volta, ad esempio, abbiamo contato nella parrocchia di Abu Dhabi circa 90 diverse nazionalità: è facile immaginare come non sia sempre facile gestire questa realtà multinazionale, multi-rituale, in un certo senso anche multi-culturale. Nella composizione sociale della nostra realtà ecclesiastica, noi abbiamo anche lavoratori che vivono nei labour-camps, che molto spesso hanno difficoltà a raggiungere le nostre chiese perché non hanno denaro per poter pagare il trasporto, o addirittura non hanno la possibilità “legale” di poter raggiungere la chiesa. Poi ci sono gli impiegati domestici di diverso tipo, ma ci sono anche persone che vivono posizioni più confortevoli: ci sono professori nelle scuole, ci sono persone che lavorano negli ospedali, negli uffici, imprenditori che hanno posizioni abbastanza buone … c’è un po’ di tutto! Però, la stragrande maggioranza è composta da gente semplice che lavora per poter offrire una vita migliore alla propria famiglia che vive nel Paese d’origine …







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