La realtà della Chiesa negli Emirati Arabi Uniti: la testimonianza di mons. Hinder
Benedetto XVI ha ricevuto ieri il primo ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti presso
la Santa Sede. Nel suo discorso il Papa ha apprezzato la libertà di culto che vige
in questo Stato musulmano. Ma cosa si attende adesso la Chiesa da questo Paese che
finalmente ha un suo rappresentante presso la Sede Apostolica? Emer McCarthy
lo ha chiesto al vicario apostolico d’Arabia, mons. Paul Hinder:
R. – Ora,
evidentemente, io aspetto che ci sia un rapporto molto più facile per quanto riguarda
questioni comuni come quella della situazione della Chiesa qui negli Emirati, ma anche
nell’ambito del dialogo interreligioso, dove le due parti sono impegnate – il Vaticano
da lungo tempo, lo sappiamo bene, ma anche qui negli Emirati ci sono delle iniziative
in corso.
D. – Nel suo discorso il Papa ha sottolineato
l’apertura degli Emirati alla libertà di culto …
R.
– Evidentemente è una libertà di culto che, seppur limitata, paragonata però a quella
che esiste in altri Paesi nella regione, è relativamente generosa. Noi abbiamo sette
parrocchie cattoliche, al momento, sparse negli Emirati. All’interno degli ambienti
fisici che ci sono stati riconosciuti come luoghi di culto noi siamo completamente
liberi: possiamo organizzare anche manifestazioni, sempre all’interno delle mura del
nostro ‘compound’. I limiti interverrebbero qualora volessimo uscire da questi spazi
a noi attribuiti per le parrocchie, ma è già – paragonato alla situazione di altri
Paesi – un progresso enorme. E questo si fonda su una tradizione, perché il fondatore
degli Emirati Arabi Uniti, il famoso Sheik Zayed, e già prima il suo predecessore,
ci avevano riconosciuto questa possibilità. E questi buoni rapporti, che originano
nel passato, sono stati anche una delle ragioni per cui il vescovo prese residenza
ad Abu Dhabi quando fummo obbligati a lasciare Aden, nello Yemen, che è stata storicamente
la prima sede del vicario apostolico in Arabia. Ora, è vero: nelle grandi parrocchie
come Abu Dhabi o Dubai abbiamo migliaia e migliaia di persone che ogni venerdì e ogni
domenica vengono in chiesa; quando ci sono le grandi feste i posti non bastano, dobbiamo
ripetere le celebrazioni soltanto per garantire almeno ad una certa maggioranza la
possibilità di poter partecipare ai servizi liturgici delle grandi feste.
D.
– Accompagnare i fedeli ad essere testimoni del Vangelo nei Paesi arabi, quanto è
difficile? Anche il Papa ha sottolineato che questi fedeli sono per la maggior parte
immigrati: ci può parlare delle loro realtà?
R. –
E’ vero: sono migranti, provenienti un po’ da tutto il mondo, in particolare dalle
Filippine, dall’India, soprattutto dai Paesi asiatici, ma anche da altre parti del
mondo, inclusi Paesi di lingua araba con minoranze più o meno grandi di fede cristiana,
come il Libano, la Siria o altri Paesi; e questo, nelle nostre parrocchie, produce
una sorta di miscellanea. Una volta, ad esempio, abbiamo contato nella parrocchia
di Abu Dhabi circa 90 diverse nazionalità: è facile immaginare come non sia sempre
facile gestire questa realtà multinazionale, multi-rituale, in un certo senso anche
multi-culturale. Nella composizione sociale della nostra realtà ecclesiastica, noi
abbiamo anche lavoratori che vivono nei labour-camps, che molto spesso hanno difficoltà
a raggiungere le nostre chiese perché non hanno denaro per poter pagare il trasporto,
o addirittura non hanno la possibilità “legale” di poter raggiungere la chiesa. Poi
ci sono gli impiegati domestici di diverso tipo, ma ci sono anche persone che vivono
posizioni più confortevoli: ci sono professori nelle scuole, ci sono persone che lavorano
negli ospedali, negli uffici, imprenditori che hanno posizioni abbastanza buone …
c’è un po’ di tutto! Però, la stragrande maggioranza è composta da gente semplice
che lavora per poter offrire una vita migliore alla propria famiglia che vive nel
Paese d’origine …