La liberazione dei detenuti politici al centro dell'importante incontro tra i vertici
della Chiesa cubana e il presidente Raul Castro
Un evento “molto positivo” che costituisce una rilevante “novità” per Cuba: così il
cardinale Jaime Ortega Alamino, arcivescovo dell’Avana, ha definito, ieri, durante
una conferenza stampa, l’importante incontro, avvenuto mercoledì scorso, tra i vertici
della Chiesa cubana e il presidente Raul Castro. Erano presenti anche mons. Dionisio
García, arcivescovo di Santiago di Cuba e presidente della Conferenza episcopale cubana,
e Caridad Diego, capo dell’Ufficio per rapporti religiosi del Comitato centrale del
Partito comunista. Un incontro che, per ufficialità e per solennità, non si registrava
da diversi anni: il cardinale Ortega ha spiegato che le quattro ore di conversazione
sono state incentrate esclusivamente sulla questione dei prigionieri politici, di
cui la Chiesa chiede la liberazione. “Si tratta - ha aggiunto - di un buon inizio,
che apre le porte a un trattamento serio della questione”. Insistendo sulla natura
dell’incontro - definito “dialogo e conversazione” - l’arcivescovo ha rilevato che
non si “tratta di alleanze o compromessi”, bensì di possibile gestione, di “mediazione
e conciliazione” nel rispetto “della libertà religiosa garantita dalla Costituzione
e dell’autonomia” dello Stato e della Chiesa. Dunque, una Chiesa che diventa interlocutrice?
Sergio Centofanti ne ha parlato con il nostro collega Luis Badilla,
esperto di questioni latinoamericane:
R. – Mi sembra
che questa sia la cosa più importante e ieri il cardinale Ortega, nella sua conferenza
stampa, lo ha sottolineato a più riprese: viene riconosciuto il ruolo della Chiesa
nel contesto della società cubana. Cosa inedita questa, perché non era mai accaduta.
Va, infatti, ricordato che spesso i vescovi incontravano le massime autorità nei cocktail
diplomatici, ma raramente – ed ormai erano parecchi anni che ciò non accadeva – incontravano
le autorità più alte dello Stato. Il fatto, quindi, che siano stati convocati dal
presidente, si siano fermati a parlare per lunghe ore e che sia stata chiesta alla
Chiesa una mediazione specifica nell’ambito dei prigionieri politici è il riconoscimento
ufficiale, definitivo - e che arriva dopo cinquant’anni - che questa Chiesa a Cuba
esiste, conta ed è importante.
D. - In concreto,
dove dovrebbe condurre questo dialogo?
R. – Su questo
il cardinale Ortega è stato ieri molto preciso. Ha detto che si tratta dell’inizio
di una conversazione: “Abbiamo aperto un dialogo, sappiamo su cosa dobbiamo lavorare”.
Si dovrà ora aspettare e vedere già nelle prossime settimane o forse anche nei prossimi
giorni - ricordiamo che di mezzo c’è una persona che sta facendo uno sciopero della
fame e che rischia ogni minuto la sua vita – se la Chiesa - immagino io perché in
questo non abbiamo molte informazioni - sarà in grado, e penso che lo sarà, di proporre
un piano, una modalità, per uscire da questa situazione, dando la libertà in diversi
modi a questi prigionieri politici, che oggi come oggi si calcolano intorno ai 200-240.
D.
- Ieri il cardinale Ortega ha parlato del dialogo come il “nuovo nome della pace”.
Come interpretare questo pensiero all’interno dell’odierna realtà cubana?
R.
– Secondo me è fondamentale ed è una questione chiave. Il problema della società cubana,
fra tanti altri problemi, in questo momento è che non c’è comunicazione fra i diversi
settori sociali, tra la società, il popolo, le autorità. Il cardinale ritiene – e
questo lo aveva già detto tre settimane fa – che la cosa primordiale e fondamentale
in questo momento è quella di riuscire a parlarsi, che tutti dicano, l’un l’altro,
cosa pensano e come vedono il futuro del Paese. Se non si dialoga, non si trovano
soluzioni, non si superano le controversie e il Paese non progredisce: anzi – come
diceva il cardinale Ortega - si rischia di arrivare alle soluzioni soltanto quando
queste sono ormai inutili ed inefficaci.
D. - Fra
poco visiterà Cuba mons. Dominique Mamberti per inaugurare le Settimane sociali. Come
leggere questa sua presenza in questo momento?
R.
– Anzitutto come la continuazione di una presenza, di una sollecitudine della Santa
Sede e in particolare del Papa nei confronti di Cuba, che viene da lontano, da diversi
anni, da diversi decenni. Mons. Mamberti arriva dopo la recente visita di mons. Celli
e la precedente visita del cardinale segretario di Stato Bertone. E’ vero che lui
va per l’inaugurazione delle Settimane Sociali, ma è anche vero che lui arriva nel
momento in cui si celebrano i 75 anni dei rapporti diplomatici ininterrotti fra Cuba
e Santa Sede. Questo è certamente un altro momento importante – immagino io – per
poter riflettere sul rapporto tra Stato-società e Stato-Chiesa nell’isola cubana.