Filomeno Lopes spiega il suo nuovo libro “E se l’Africa scomparisse dal mappamondo?”
“E se l’Africa scomparisse dal mappamondo? Una riflessione filosofica” Questo è il
titolo dell’ultimo libro (Armando Editore) scritto dal nostro collega del programma
portoghese, Filomeno Lopes, presentato ieri presso la Radio Vaticana. L’autore
risponde al quesito – volutamente provocatorio – attraverso una prospettiva filosofica.
Eugenio Bonanata lo ha intervistato:
R. – La questione
più importante non è tanto ciò che gli altri possono pensare sulla scomparsa o meno
del continente, ma quanto ciò che la stessa Africa è in grado di rispondere su questo
interrogativo.
D. – Quindi si tratta di spostare
l’interesse su un aspetto qualitativo...
R. – C’è
un proverbio africano che dice: “Quando il tuo futuro è assai oscuro, non avere timore
né vergogna di tornare indietro”. E un noto intellettuale politico come Amilcar Cabral
diceva: “Anche in un combattimento ogni tanto è saggio indietreggiare”, perché non
è un gesto di codardia, ma è un modo per poter guardare il domani con più cognizione
di causa. Se si guarda oggi al futuro dell’Africa è veramente problematico per noi
africani. Allora bisogna fermarsi, tornare indietro, per guardare cosa c’era prima
e cosa può costituire quello spirito per un futuro meno peggiore del presente, che
stiamo vivendo.
D. – La vittoria della storia, dunque,
sulla geografia...
R. - Ovviamente sì, perché la
geografia non l’abbiamo fatta noi, e questo nel libro è molto chiaro: il mondo non
è l’Occidente, ma l’Occidente è diventato il mondo entro il quale tutti noi siamo
nati e cresciuti. Perciò quell’Africa di cui io parlo è quell’Africa che nasce veramente
sulla nave della schiavitù, che si afferma come realtà pensante sul suo futuro a partire
dalle Americhe, con i figli degli schiavi, con i movimenti del Panafricanesimo e di
Negritude, e che rientra nel suolo ormai chiamato Africa a partire dagli anni ’60.
Quindi quest’Africa non è necessariamente un luogo geografico, ma unità di passioni
e capacità di pensare insieme, progettare un futuro.
D.
– Quindi, guardare avanti senza pessimismo...
R.
– Ovviamente, la speranza è pur sempre una conquista. Quello africano è un popolo
che è stato capace di vincere 500 anni tra schiavitù, colonizzazione, apartheid, fino
ad arrivare all’indipendenza e così via. Dunque non parte da zero e questa è già una
prova perché se ne siamo stati capaci ieri, possiamo esserlo anche domani.
D.
– Qual è la strada che proponi nel tuo libro?
R.
– Il mio tentativo è di cercare una riflessione, creare condizioni di possibilità
filosofiche per un discorso sulla filosofia della comunicazione, o meglio ancora una
filosofia dell’agire comunicativo endogeno in Africa. L’Africa ha cominciato ad esistere
a partire da un certo periodo ed è esistita come realtà di violenza. Da quel periodo
in poi stiamo cercando di capire come, da questa morte, possa nascere una resurrezione.
Da qui tutto il tema del Rinascimento africano che, secondo me, non può prescindere
dalla comunicazione. E’ inutile parlare di solidarietà, quando ci stiamo uccidendo
ogni giorno. Questo significa che di fondo la nostra capacità comunicativa è fortemente
in crisi. Allora, dove andare ad attingere di nuovo per capire che se continuiamo
così il futuro ci remerà contro? Io parto dagli egiziani per arrivare a dialogare
con tutti gli altri filosofi, dai greci fino ad Habermas. Questo ormai è il patrimonio
dell’Africa. Noi siamo questa realtà: dentro di me abita un europeo, un americano,
un asiatico e viceversa.