400 anni fa la morte di padre Matteo Ricci, maestro del dialogo tra Occidente ed Oriente
Uomo di fede e di scienza, colto e carismatico, giovane gesuita missionario in Cina
sotto le dinastie Ming e Qing, uomo del dialogo tra culture e religioni, seppe gettare
un solido ponte tra Oriente ed Occidente. Parliamo di padre Matteo Ricci, di cui ricorrono
oggi i 400 anni dalla morte, l’11 maggio del 1610. Roberta Gisotti ha intervistato
il prof. Filippo Mignini, direttore dell’“Istituto Matteo Ricci per le relazioni
con l’Oriente” di Macerata, città nativa del gesuita, dove quest’anno si svolgono
diverse iniziative volte a valorizzare l’opera di questo sapiente e moderno sacerdote
del passato:
D. - Prof. Mignini,
questo anniversario cade in un momento storico particolare di apertura politica ed
economica e rinnovate relazioni culturali con l’Oriente, in particolare proprio con
la Cina. Quali suggestioni per il presente ci arrivano dalla vita di padre Matteo
Ricci?
R. – Anzitutto comprendere che la riuscita della missione cinese di
Ricci e dei suoi compagni – quattro secoli fa – fu resa possibile dall’incontro straordinario
della loro cultura cristiana e gesuitica che poneva la carità – intesa come responsabilità
nei confronti di se stessi e del prossimo e direi anche del mondo nel quale si vive
– in ordine ad un principio universale, con la medesima idea che nutrivano gli interlocutori
confuciani di Matteo Ricci: ossia che l’uomo perfetto è colui che agisce obbedendo
al cielo e seguendo le leggi della natura. Su questo punto si incontrarono intellettuali
occidentali e cinesi e poterono realizzare quell’avvenimento straordinario e praticamente
unico nella storia del mondo, che consiste nell’incontro di due civiltà, che non si
conoscevano fino a quel momento e che si riconoscevano come parti di un intero, laddove
per intero si intende la stessa umanità. Questo mi pare che sia il primo insegnamento
al quale dovremmo guardare con attenzione e ritornare.
D. - Padre Matteo Ricci,
pioniere della cristianità in Cina, seppe esprimere il Vangelo nei termini e nelle
categorie della cultura cinese: di certo non avrebbe accettato di parlare oggi di
scontro di civiltà, ma piuttosto di dialogo rispettoso…
R. – Sì, il secondo
insegnamento è che l’esperienza di Ricci in Cina si può probabilmente connotare con
l’idea del confronto sincero e leale, ma un confronto sulle eccellenze delle due civiltà.
A me pare che oggi il rapporto con la Cina non sia sostanzialmente cambiato. Se noi
vogliamo essere interlocutori all’altezza della sfida, dobbiamo attrezzarci in modo
tale da poter competere, nel senso proprio del confronto dell’eccellenza e cioè del
dare all’altro quello che si ha in più per riattivare, in un momento storico nuovo,
una speranza nuova per il futuro.
D. – Possiamo dire che Matteo Ricci sia stato
un sapiente del passato di grande modernità, di grande attualità?
R. – Credo
che si possa dire senz’altro questo. Del resto Giovanni Paolo II nel suo discorso
lo additò come “modello di evangelizzazione per il Terzo Millennio”. La modernità
consiste principalmente nel fatto che, formatosi alla scuola di Ignazio e cioè a quella
rigorosa concezione della carità come atteggiamento universale verso tutte le nazioni,
senza alcuna discriminazione, questo lo portava a considerare tutti gli uomini, in
quanto umani, uguali tra loro e degni di essere fratelli. C’è una bellissima frase,
a conclusione della prefazione di Ricci al “Mappamondo” del 1602 elaborato a Pechino,
nella quale dice: “Io Matteo, così poco intelligente, dedico questa mappa a tutti
quelli che, insieme con me, posano i piedi sulla stessa terra e respirano sotto lo
stesso cielo". La mappa era scritta in cinese, ma dedicata a tutti gli uomini, a cominciare
dai cinesi. Questa apertura lo ha reso moderno rispetto ai pregiudizi dai quali gli
uomini non solo nel passato, ma anche oggi, sono molto spesso vinti.