Il caso del feto rimasto in vita per 24 ore dopo l'aborto terapeutico. Mons. Sgreccia:
se nato vivo, gli si deve assistenza al di là dei limiti di legge
Il caso del feto di 22 settimane rimasto in vita per 24 ore dopo un aborto terapeutico
praticato in un ospedale calabrese e poi deceduto per mancanza di ossigeno sta scuotendo
l’opinione pubblica italiana. Medici e infermieri coinvolti nell’interruzione di gravidanza
hanno ricevuto un avviso di garanzia: la Procura della Repubblica di Rossano indaga
per capire se siano state violate le disposizioni della legge 194. La Curia vescovile
ha parlato di “arbitraria superficialità dei sanitari nell’omettere qualsiasi tipo
di cura e rianimazione del bambino”. I particolari nel servizio di Alessandro De
Carolis:
Trecento
grammi appena e un cuore che doveva morire e invece non ha voluto smettere di battere.
Almeno per un altro giorno, finché ha dovuto arrendersi. Ora si è spento per sempre,
ma la storia del piccolo feto mai diventato bambino ha avuto un iter di una drammaticità
inusuale perfino per le stanze abituate agli aborti terapeutici. I fatti: lo scorso
sabato mattina, una donna si presenta all’ospedale “Nicola Giannattasio” di Rossano
Calabro, in provincia di Cosenza. Ha deciso di interrompere la sua prima gravidanza
alla 22.ma settimana: l’ultima ecografia ha evidenziato due malformazioni al palato
e al labbro del figlio che porta in grembo. I medici del reparto di Ostetricia dell’ospedale
le praticano l’aborto terapeutico e depositano il feto espulso, avvolto in un lenzuolo,
dentro un contenitore, in attesa che muoia. Ma il piccolo esserino non si spegne,
continua a respirare anche se non ce la fa da solo, avrebbe bisogno di un aiuto che
la legge non ha previsto per la sua età e che dunque non gli viene concesso anche
perché nessuno è tenuto a verificare. Ma nelle ore successive, qualcuno si accorge
dei timidi movimenti nel contenitore. Si reca dal cappellano dell’ospedale e nel segreto
della confessione gli racconta ciò che ha visto. Ma è già domenica mattina quando
don Antonio Martello verifica di persona: una terribile scena di solitudine, a 24
ore ormai dall’aborto, che più tardi si consuma con l’ultimo sussulto vitale del feto.
Sulla vicenda ora indagano gli inquirenti calabresi per stabilire chi aveva il compito
di verificare il decesso e se si sia configurato un caso di abbandono terapeutico.
Emanuela Campanile ha raccolto il commento del vescovo
Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita,
che riflette sui limiti di una legge che assicura l’intubazione e la ventilazione
solo a feti vitali di 23 e 24 settimane:
"Il medico
non deve guardare la data deve guardare il fatto. Quindi, se un feto viene abortito,
volontariamente o accidentalmente, e lo si trova vivo anche se ai limiti della sopravvivenza,
ai limiti cronologici, e però si è di fronte a un feto che, o perché vigoroso o perché
non calcolate bene le date, di fatto viene fuori vivo, si è obbligati a farlo vivere.
Questo venga chiarito per legge, o addirittura venga anticipata la data della vitalità.
Quindi, ha fatto bene il vescovo a richiamare la massima attenzione e vigilanza, perché
quello che vale di fronte alla vita umana - di fronte alla coscienza, di fronte a
Dio - è uno che nasce e addirittura è già fuori dell’utero materno e si dimostra di
essere vitale, deve avere tutto il soccorso per essere accompagnato".