"Testimoni digitali": nuovo convegno della Cei sulla comunicazione
“Testimoni digitali”: è il tema dell’incontro promosso dalla Conferenza episcopale
italiana che dal 22 al 24 aprile riunirà a Roma esponenti del mondo della comunicazione
e della cultura. Il Convegno arriva otto anni dopo l’incontro su “Parabole mediatiche”
che nel 2002, all’indomani del Giubileo, rafforzò l’impegno della Chiesa italiana
nel campo della comunicazione sociale. Luca Collodi ha chiesto a mons. Domenico
Pompili, direttore dell’Ufficio Nazionale Cei delle Comunicazioni Sociali, come
la Chiesa guardi oggi ai nuovi media:
R. – Tutti
siamo consapevoli del fatto che Internet abbia modificato il nostro modo di vivere
ed anche di pensare e, probabilmente, anche l’impatto nella dinamica delle relazioni
quotidiane. Partendo da questa consapevolezza, abbiamo pensato che fosse il momento
per fare nuovamente il punto, sia in ordine a quel che culturalmente significa la
rete - pensiamo che il 67 per cento dei giovani, stando all’ultimo Rapporto del Censis,
è presente su Facebook, e probabilmente, questo rappresenta un dato quantitativo che
va, in qualche modo, interpretato; e, poi, a partire anche da quel che la rete significa
per l’evangelizzazione, poiché la Chiesa non può certo prescindere dal linguaggio
della gente cui intende far arrivare l’annuncio di Gesù Cristo. D.
– Perché questo titolo del Convegno “Testimoni digitali”? R.
– “Testimone” dice la priorità del soggetto che va considerato prima di ogni altra
cosa e dice anche – essendo un testimone – il riferimento a qualcosa che ci sta a
cuore: il Vangelo. Direi che la prospettiva, dunque, che muove il nostro Convegno
non è meramente tecnologica o economica, ma ha a che fare con una sorta di cura per
l’uomo e per l’uomo cui è destinato il Vangelo. “Digitale” è l’aggettivazione che
connota questa nostra condizione attuale e che dice le variazioni che si sono, nel
frattempo, introdotte, di fronte alle quali occorre un atteggiamento che non sia né
pregiudizialmente chiuso, né ingenuamente aperto, ma sanamente critico, perché direi
che la rete - così come ogni linguaggio - evidentemente deve essere interpretata ad
occhi aperti. D. – Possiamo anche affrontare il tema dell’obiettivo
di questo incontro: che cosa, alla fine, vi proponete? R. –
Ci proponiamo sostanzialmente due obiettivi. Il primo, è quello di suscitare una discussione
culturale intorno al fenomeno di Internet, che sta plasmando i vecchi e i nuovi media,
nel senso che non li ha né eliminati, né introdotti di nuovi. Sta semplicemente rimodificando
tutti i media. Ciò significa interpretare questo dato nuovo e significa fare il punto
su questa situazione che offre grandi possibilità, ma che fa anche emergere inediti
rischi: la rete, in altre parole, è sì il regno del possibile e di quello che non
sospetteremmo, ma può essere anche soggetta a possibili deviazioni o a manipolazioni.
Il secondo obiettivo è quello di far intendere che la comunicazione del Vangelo oggi
non può prescindere da questo nuovo territorio che – come dice Benedetto XVI nel messaggio
per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali – non va occupato, ma
interpretato da persone che hanno a cuore il Vangelo. Credo che dal mondo della rete
sorgano verso l’evangelizzazione molte provocazioni. La prima di queste è l’interattività,
che è tipica del linguaggio della rete: probabilmente, il Vangelo ha l'interattività
nel suo Dna e forse dobbiamo ritrovare questa capacità di saper sollecitare l’interlocutore,
di toccarlo sulle corde giuste o di rianimarne il desiderio di ricerca. L’altro aspetto,
poi, dice che la rete è, accanto all’interattività, anche la sua essenzialità: di
qui forse una provocazione anche per il Vangelo che originariamente ha un dato molto
essenziale, il “kerigma”. Forse ci richiama ad andare al cuore dell’Annuncio evangelico,
a saper cogliere l’essenziale della posta in gioco, che è - appunto - la grande domanda
su Dio.(Montaggio a cura di Maria Brigini)