Il Papa nella Veglia di Pasqua: la medicina contro la morte esiste: è Cristo! Testo
integrale dell’omelia
La medicina contro la morte esiste: è Cristo! E’ quanto ha detto il Papa nella Messa
da lui presieduta nella Basilica Vaticana per la Veglia Pasquale. Gli uomini – ha
spiegato – cercano di prolungare e migliore la vita. Ma – ha aggiunto – “come sarebbe
veramente, se si riuscisse, magari non ad escludere totalmente la morte, ma a rimandarla
indefinitamente, a raggiungere un’età di parecchie centinaia di anni? Sarebbe questa
una cosa buona? L’umanità invecchierebbe in misura straordinaria, per la gioventù
non ci sarebbe più posto. Si spegnerebbe la capacità dell’innovazione e una vita interminabile
sarebbe non un paradiso, ma piuttosto una condanna”. Cristo invece trasforma “la
nostra vita dal di dentro”, crea “in noi una vita nuova, veramente capace di eternità”
trasformandoci in modo tale da non finire con la morte, ma da iniziare solo con essa
in pienezza”. Nel Battesimo – ha proseguito il Papa – ci viene donata la medicina
contro la morte. Ha quindi spiegato il rito battesimale: “Nella Chiesa antica, il
battezzando si volgeva verso occidente, simbolo delle tenebre, del tramonto del sole,
della morte e quindi del dominio del peccato. Il battezzando si volgeva in quella
direzione e pronunciava un triplice ‘no’: al diavolo, alle sue pompe e al peccato.
Con la strana parola ‘pompe’, cioè lo sfarzo del diavolo, si indicava lo splendore
dell’antico culto degli dèi e dell’antico teatro, in cui si provava gusto vedendo
persone vive sbranate da bestie feroci. Così questo era il rifiuto di un tipo di cultura
che incatenava l’uomo all’adorazione del potere, al mondo della cupidigia, alla menzogna,
alla crudeltà … Poi il battezzando nella Chiesa antica si volgeva verso oriente –
simbolo della luce, simbolo del nuovo sole della storia, nuovo sole che sorge, simbolo
di Cristo. Il battezzando determina la nuova direzione della sua vita: la fede nel
Dio trinitario al quale egli si consegna. Così Dio stesso ci veste dell’abito di luce,
dell’abito della vita. Paolo chiama queste nuove ‘vesti’ ‘frutto dello Spirito’ e
le descrive con le seguenti parole: ‘amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza,
bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé’ (Gal 5,22)”. Quindi ha concluso: “La gioia
non la si può comandare. La si può solo donare. Il Signore risorto ci dona la gioia:
la vera vita. Noi siamo ormai per sempre custoditi nell’amore di Colui al quale è
stato dato ogni potere in cielo e sulla terra (cfr Mt 28,18)”. Ecco il testo integrale
dell’omelia del Papa:
Cari
fratelli e sorelle,
un’antica leggenda
giudaica tratta dal libro apocrifo “La vita di Adamo ed Eva“ racconta che Adamo, nella
sua ultima malattia, avrebbe mandato il figlio Set insieme con Eva nella regione del
Paradiso a prendere l’olio della misericordia, per essere unto con questo e così guarito.
Dopo tutto il pregare e il piangere dei due in cerca dell’albero della vita, appare
l’Arcangelo Michele per dire loro che non avrebbero ottenuto l’olio dell’albero della
misericordia e che Adamo sarebbe dovuto morire. In seguito, lettori cristiani hanno
aggiunto a questa comunicazione dell’Arcangelo una parola di consolazione. L’Arcangelo
avrebbe detto che dopo 5.500 anni sarebbe venuto l’amorevole Re Cristo, il Figlio
di Dio, e avrebbe unto con l’olio della sua misericordia tutti coloro che avrebbero
creduto in Lui. “L’olio della misericordia di eternità in eternità sarà dato a quanti
dovranno rinascere dall’acqua e dallo Spirito Santo. Allora il Figlio di Dio ricco
d’amore, Cristo, discenderà nelle profondità della terra e condurrà tuo padre nel
Paradiso, presso l’albero della misericordia”. In questa leggenda diventa visibile
tutta l’afflizione dell’uomo di fronte al destino di malattia, dolore e morte che
ci è stato imposto. Si rende evidente la resistenza che l’uomo oppone alla morte:
da qualche parte – hanno ripetutamente pensato gli uomini – dovrebbe pur esserci l’erba
medicinale contro la morte. Prima o poi dovrebbe essere possibile trovare il farmaco
non soltanto contro questa o quella malattia, ma contro la vera fatalità – contro
la morte. Dovrebbe, insomma, esistere la medicina dell’immortalità. Anche oggi gli
uomini sono alla ricerca di tale sostanza curativa. Pure la scienza medica attuale
cerca, anche se non proprio di escludere la morte, di eliminare tuttavia il maggior
numero possibile delle sue cause, di rimandarla sempre di più; di procurare una vita
sempre migliore e più lunga. Ma riflettiamo ancora un momento: come sarebbe veramente,
se si riuscisse, magari non ad escludere totalmente la morte, ma a rimandarla indefinitamente,
a raggiungere un’età di parecchie centinaia di anni? Sarebbe questa una cosa buona?
L’umanità invecchierebbe in misura straordinaria, per la gioventù non ci sarebbe più
posto. Si spegnerebbe la capacità dell’innovazione e una vita interminabile sarebbe
non un paradiso, ma piuttosto una condanna. La vera erba medicinale contro la morte
dovrebbe essere diversa. Non dovrebbe portare semplicemente un prolungamento indefinito
di questa vita attuale. Dovrebbe trasformare la nostra vita dal di dentro. Dovrebbe
creare in noi una vita nuova, veramente capace di eternità: dovrebbe trasformarci
in modo tale da non finire con la morte, ma da iniziare solo con essa in pienezza.
Ciò che è nuovo ed emozionante del messaggio cristiano, del Vangelo di Gesù Cristo,
era ed è tuttora questo, che ci viene detto: sì, quest’erba medicinale contro la morte,
questo vero farmaco dell’immortalità esiste. È stato trovato. È accessibile. Nel Battesimo
questa medicina ci viene donata. Una vita nuova inizia in noi, una vita nuova che
matura nella fede e non viene cancellata dalla morte della vecchia vita, ma che solo
allora viene portata pienamente alla luce.
A
questo alcuni, forse molti risponderanno: il messaggio, certo, lo sento, però mi manca
la fede. E anche chi vuole credere chiederà: ma è davvero così? Come dobbiamo immaginarcelo?
Come si svolge questa trasformazione della vecchia vita, così che si formi in essa
la vita nuova che non conosce la morte? Ancora una volta un antico scritto giudaico
può aiutarci ad avere un’idea di quel processo misterioso che inizia in noi col Battesimo.
Lì si racconta come il progenitore Enoch venne rapito fino al trono di Dio. Ma egli
si spaventò di fronte alle gloriose potestà angeliche e, nella sua debolezza umana,
non poté contemplare il Volto di Dio. “Allora Dio disse a Michele – così prosegue
il libro di Enoch –: ‘Prendi Enoch e togligli le vesti terrene. Ungilo con olio soave
e rivestilo con abiti di gloria!’ E Michele mi tolse le mie vesti, mi unse di olio
soave, e quest’olio era più di una luce radiosa… Il suo splendore era simile ai raggi
del sole. Quando mi guardai, ecco che ero come uno degli esseri gloriosi” (Ph. Rech,
Inbild des Kosmos, II 524).
Precisamente
questo – l’essere rivestiti col nuovo abito di Dio – avviene nel Battesimo; così ci
dice la fede cristiana. Certo, questo cambio delle vesti è un percorso che dura tutta
la vita. Ciò che avviene nel Battesimo è l’inizio di un processo che abbraccia tutta
la nostra vita – ci rende capaci di eternità, così che nell’abito di luce di Gesù
Cristo possiamo apparire al cospetto di Dio e vivere con Lui per sempre.
Nel
rito del Battesimo ci sono due elementi in cui questo evento si esprime e diventa
visibile anche come esigenza per la nostra ulteriore vita. C’è anzitutto il rito delle
rinunce e delle promesse. Nella Chiesa antica, il battezzando si volgeva verso occidente,
simbolo delle tenebre, del tramonto del sole, della morte e quindi del dominio del
peccato. Il battezzando si volgeva in quella direzione e pronunciava un triplice “no”:
al diavolo, alle sue pompe e al peccato. Con la strana parola “pompe”, cioè lo sfarzo
del diavolo, si indicava lo splendore dell’antico culto degli dèi e dell’antico teatro,
in cui si provava gusto vedendo persone vive sbranate da bestie feroci. Così questo
"no" era il rifiuto di un tipo di cultura che incatenava l’uomo all’adorazione del
potere, al mondo della cupidigia, alla menzogna, alla crudeltà. Era un atto di liberazione
dall’imposizione di una forma di vita, che si offriva come piacere e, tuttavia, spingeva
verso la distruzione di ciò che nell’uomo sono le sue qualità migliori. Questa rinuncia
– con un procedimento meno drammatico – costituisce anche oggi una parte essenziale
del Battesimo. In esso leviamo le “vesti vecchie” con le quali non si può stare davanti
a Dio. Detto meglio: cominciamo a deporle. Questa rinuncia è, infatti, una promessa
in cui diamo la mano a Cristo, affinché Egli ci guidi e ci rivesta. Quali siano le
“vesti” che deponiamo, quale sia la promessa che pronunciamo, si rende evidente quando
leggiamo, nel quinto capitolo della Lettera ai Galati, che cosa Paolo chiami “opere
della carne” – termine che significa precisamente le vesti vecchie da deporre. Paolo
le designa così: “fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie,
discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose
del genere” (Gal 5,19ss). Sono queste le vesti che deponiamo; sono vesti della morte.
Poi
il battezzando nella Chiesa antica si volgeva verso oriente – simbolo della luce,
simbolo del nuovo sole della storia, nuovo sole che sorge, simbolo di Cristo. Il battezzando
determina la nuova direzione della sua vita: la fede nel Dio trinitario al quale egli
si consegna. Così Dio stesso ci veste dell’abito di luce, dell’abito della vita. Paolo
chiama queste nuove “vesti” “frutto dello Spirito” e le descrive con le seguenti parole:
“amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di
sé” (Gal 5,22).
Nella Chiesa antica, il
battezzando veniva poi veramente spogliato delle sue vesti. Egli scendeva nel fonte
battesimale e veniva immerso tre volte – un simbolo della morte che esprime tutta
la radicalità di tale spogliazione e di tale cambio di veste. Questa vita, che comunque
è votata alla morte, il battezzando la consegna alla morte, insieme con Cristo, e
da Lui si lascia trascinare e tirare su nella vita nuova che lo trasforma per l’eternità.
Poi, risalendo dalle acque battesimali, i neofiti venivano rivestiti con la veste
bianca, la veste di luce di Dio, e ricevevano la candela accesa come segno della nuova
vita nella luce che Dio stesso aveva accesa in essi. Lo sapevano: avevano ottenuto
il farmaco dell’immortalità, che ora, nel momento di ricevere la Santa Comunione,
prendeva pienamente forma. In essa riceviamo il Corpo del Signore risorto e veniamo,
noi stessi, attirati in questo Corpo, così che siamo già custoditi in Colui che ha
vinto la morte e ci porta attraverso la morte.
Nel
corso dei secoli, i simboli sono diventati più scarsi, ma l’avvenimento essenziale
del Battesimo è tuttavia rimasto lo stesso. Esso non è solo un lavacro, ancor meno
un’accoglienza un po’ complicata in una nuova associazione. È morte e risurrezione,
rinascita alla vita nuova.
Sì, l’erba
medicinale contro la morte esiste. Cristo è l’albero della vita reso nuovamente accessibile.
Se ci atteniamo a Lui, allora siamo nella vita. Per questo canteremo in questa notte
della risurrezione, con tutto il cuore, l’alleluia, il canto della gioia che non ha
bisogno di parole. Per questo Paolo può dire ai Filippesi: “Siate sempre lieti nel
Signore, ve lo ripeto: siate lieti!” (Fil 4,4). La gioia non la si può comandare.
La si può solo donare. Il Signore risorto ci dona la gioia: la vera vita. Noi siamo
ormai per sempre custoditi nell’amore di Colui al quale è stato dato ogni potere in
cielo e sulla terra (cfr Mt 28,18). Così chiediamo, certi di essere esauditi, con
la preghiera sulle offerte che la Chiesa eleva in questa notte: Accogli, Signore,
le preghiere del tuo popolo insieme con le offerte sacrificali, perché ciò che con
i misteri pasquali ha avuto inizio ci giovi, per opera tua, come medicina per l’eternità.
Amen.