2010-04-02 14:52:53

Giornata mondiale dell'autismo: patologia che colpisce tre bambini su mille


“I bambini e gli adulti affetti da autismo hanno un doppio fardello. Oltre alle sfide quotidiane con la propria disabilità, essi devono anche lottare contro gli atteggiamenti negativi della società, contro un inadeguato supporto alle loro necessità e, in alcuni casi, contro una discriminazione sfrontata”. E’ quanto scrive il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, nel suo messaggio per l’odierna Giornata mondiale di sensibilizzazione sull’autismo. Un dramma che colpisce oggi tre bambini su mille e che si scontra con il pregiudizio e con dolorose forme di esclusione sociale. A tutti i portatori di autismo il Papa, nella scorsa Domenica delle Palme, ha rivolto il proprio pensiero, assicurando la sua vicinanza e la sua preghiera. Ma a fronte di una crescente diffusione della patologia, è possibile oggi identificarne le cause? Eliana Astorri lo ha chiesto al prof. Giovanni Neri, direttore dell’Istituto di genetica medica al Policlinico gemelli di Roma:RealAudioMP3

R. – Le cause non sono note individualmente o specificamente. Siamo però sicuri che c’è una componente genetica e su questo non c’è dubbio. L’esistenza di una componente genetica è testimoniata dal fatto che ci sono delle famiglie in cui c’è una ricorrenza di autismo. Mi spiego meglio: nella popolazione generale l’autismo ha una frequenza di circa 3 per mille, molto più frequente nei maschi che non nelle femmine, in un rapporto di circa 4 ad 1; se poi andiamo a vedere le famiglie in cui c’è già un caso di autismo, la probabilità che ve ne sia un secondo fra i fratelli di questo soggetto non è più del 3 per mille, ma va intorno al 3 per cento. Si tratta, quindi, di una frequenza circa 10 volte maggiore. Questo testimonia che vi è una componente genetica alla base di questo disturbo.

 
D. – Quindi ci si nasce?

 
R. – Sì, ci si nasce.

 
D. – E’ un bel problema in questa patologia, professore, perché c’è una sorta di impotenza?

 
R. – E’ un grandissimo problema e sicuramente anche perché l’autismo è vissuto dalle famiglie come un grande dramma. Ed è il dramma quotidiano dei genitori cercare di capire che cosa c’è nella mente di questi bambini, con i quali si fa così fatica a comunicare.

Ma che tipo di comunicazione è possibile fra un bambino autistico e i propri genitori? Claudia Di Lorenzi lo ha chiesto alla prof.ssa Paola Facchin, docente di pediatria all’Università di Padova e membro del comitato scientifico dell’Angsa, Associazione Nazionale genitori dei soggetti autistici:RealAudioMP3

R. – E’ possibile una qualche comunicazione a livelli molto diversi, anche perché ognuno di questi soggetti ha una possibilità di comunicazione: alcuni sviluppano il linguaggio, anche se magari più povero o diverso da altri, mentre altri non lo sviluppano per niente, ma mantengono possibilità di comunicazione con la gestualità, con la mimica, con il gioco. Il modo con cui comunicare con questi bambini diventa uno degli obiettivi dei trattamenti.

 
D. – Per accrescere questa capacità di comunicazione è utile il coinvolgimento dei familiari nella terapia?

 
R. – Il coinvolgimento è essenziale e non c’è soltanto il coinvolgimento nelle cose da fare e quindi dare indicazioni su come comportarsi, cosa fare, ma anche un coinvolgimento attivo e che è un coinvolgimento nell’imparare a gestire il bambino, ma anche imparare a promuovere la sua salute, la sua qualità di vita, il suo benessere e con questo anche quello della famiglia. Le potenzialità possono essere più o meno ampie, ma non dobbiamo immaginare che per questi bambini non ci sia niente da fare.

 
D. – Quali pregiudizi condizionano un approccio costruttivo alla patologia?

 
R. – Questi bambini, da un lato, sono esclusi perché fanno “paura”, sono assolutamente diversi dagli altri e ci mettono in discussione, ci mettono in difficoltà, e, dall’altro, siamo noi a creare delle categorie uniche, vengono ad esempio tutti accorparti sotto l’etichetta “ritardati mentali”, cosa che non è vera perché non tutti lo sono, anzi molti non lo sono per niente e sono dotati di una buona se non addirittura elevata intelligenza. Il secondo problema è l’intangibilità della patologia: una patologia fisica come tale viene riconosciuta e in qualche modo anche giustificata ed accettata; in questi bambini il danno tangibile non si vede, perché c’è un danno comportamentale, e quindi l’esclusione si trova frequentemente ed è una di quelle cose contro le quali bisogna assolutamente agire.

 
D. – Come combattere il pregiudizio?

 
R. – Dare delle sensibilizzazioni su questo problema è molto importante e questo sia su cosa è, sia sulle possibili cause e sia anche sulle conseguenze. Molto importante è poi la comunicazione che ci deve essere tra i centri specializzati e tutte le reti sanitarie, ma anche sociali, educative, del tempo libero, le reti orizzontali, dove questi bambini vivono. La seconda leva è la formazione dei professionisti e tra i professionisti metto – ad esempio – gli insegnanti e tutti coloro che hanno a che fare con gruppi di bambini e di famiglie.

 
D. – Sulla base delle conoscenze oggi in possesso, che tipo di integrazione è possibile per i soggetti autistici?

 
R. – Una qualche integrazione è possibile. Se nell’ambito dell’età pediatrica i servizi sono in qualche modo allertati nel fare e nel riconoscere questa diagnosi, incredibilmente quando si varca l’età dei 18 anni questi soggetti perdono perfino l’identità della loro patologia, sono dispersi nei servizi, con delle finte diagnosi di ritardo mentale. Certamente non si può avere integrazione se non si ha riconoscimento del proprio problema e trattamento specifico del proprio problema.







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