Celebrazione della Passione del Signore in Vaticano. Padre Cantalamessa: "Cristo è
il miglior alleato delle donne vittime della violenza"
Il dramma della violenza sulle donne è stato al centro dell’omelia del predicatore
della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa questo pomeriggio nella celebrazione
della Passione del Signore, presieduta da Benedetto XVI nella Basilica Vaticana. Cristo,
nel sacrificio della Croce, è il “migliore alleato” delle vittime di tali abusi, ha
detto il sacerdote francescano. “Metà dell’umanità deve chiedere perdono all’altra
metà, gli uomini alle donne” - ha proseguito – “Il sacrificio di Cristo ricorda che
la violenza è sempre perdente”. Il servizio è di Paolo Ondarza:
Di
seguito riportiamo il testo integrale dell'omelia di padre Cantalamessa:
"Abbiamo
un grande Sommo Sacerdote che ha attraversato i cieli, Gesù, il Figlio di Dio": così
inizia il brano della Lettera agli Ebrei che abbiamo ascoltato nella seconda lettura.
Nell'anno sacerdotale, la liturgia del Venerdì Santo ci permette di risalire alla
sorgente storica del sacerdozio cristiano. Essa è la sorgente di entrambe le realizzazioni
del sacerdozio: quella ministeriale, dei vescovi e dei presbiteri, e quella universale
di tutti i fedeli. Anche questa infatti si fonda sul sacrificio di Cristo che, dice
l'Apocalisse, "ci ama, e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue e ha
fatto di noi un regno e dei sacerdoti del Dio e Padre suo" (Ap 1, 5-6). È di vitale
importanza perciò capire la natura del sacrificio e del sacerdozio di Cristo perché
è di essi che sacerdoti e laici, in modo diverso, dobbiamo recare l'impronta e cercare
di vivere le esigenze. La Lettera agli Ebrei spiega in che consiste la novità
e l'unicità del sacerdozio di Cristo, non solo rispetto al sacerdozio dell'antica
alleanza, ma, come ci insegna oggi la storia delle religioni, rispetto a ogni istituzione
sacerdotale anche fuori della Bibbia. "Cristo, sommo sacerdote dei beni futuri […]
è entrato una volta per sempre nel luogo santissimo, non con sangue di capri e di
vitelli, ma con il proprio sangue. Così ci ha acquistato una redenzione eterna. Infatti,
se il sangue di capri, di tori e la cenere di una giovenca sparsa su quelli che sono
contaminati, li santificano, in modo da procurar la purezza della carne, quanto più
il sangue di Cristo, che mediante lo Spirito eterno offrì se stesso puro di ogni colpa
a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente!"
(Eb 9, 11-14). Ogni altro sacerdote offre qualcosa fuori di sé, Cristo ha offerto
se stesso; ogni altro sacerdote offre delle vittime, Cristo si è offerto vittima!
Sant'Agostino ha racchiuso in una formula celebre questo nuovo genere di sacerdozio
in cui sacerdote e vittima sono la stessa cosa: "Ideo sacerdos, quia sacrificium":
sacerdote perché vittima" . * * * Nel 1972 un noto pensatore francese lanciava
la tesi secondo cui "la violenza è il cuore e l'anima segreta del sacro" . All'origine
infatti e al centro di ogni religione c'è il sacrificio, e il sacrificio comporta
distruzione e morte. Il giornale "Le Monde" salutava l'affermazione, dicendo che essa
faceva di quell'anno "un anno da segnare con asterisco negli annali dell'umanità".
Già prima però di questa data, quello studioso si era riavvicinato al cristianesimo
e nella Pasqua del 1959 aveva reso pubblica la sua "conversione", dichiarandosi credente
e tornando alla Chiesa. Questo gli permise di non fermarsi, negli studi successivi,
all'analisi del meccanismo della violenza, ma di additare anche come uscire da esso.
Molti, purtroppo, continuano a citare René Girard come colui che ha denunciato l'alleanza
tra il sacro e la violenza, ma non fanno parola del Girard che ha additato nel mistero
pasquale di Cristo la rottura totale e definitiva di tale alleanza. Secondo lui, Gesù
smaschera e spezza il meccanismo del capro espiatorio che sacralizza la violenza,
facendosi lui, innocente, la vittima di tutta la violenza . Il processo che porta
alla nascita della religione è rovesciato, rispetto alla spiegazione che ne aveva
dato Freud. In Cristo, è Dio che si fa vittima, non la vittima (in Freud, il padre
primordiale) che, una volta sacrificata, viene successivamente elevata a dignità divina
(il Padre dei cieli). Non è più l'uomo che offre sacrifici a Dio, ma Dio che si "sacrifica"
per l'uomo, consegnando alla morte per lui il suo Figlio unigenito (cf. Gv 3,16).
Il sacrificio non serve più a "placare" la divinità, ma piuttosto a placare l'uomo
e farlo desistere dalla sua ostilità nei confronti di Dio e del prossimo. Cristo
non è venuto con sangue altrui, ma con il proprio. Non ha messo i propri peccati sulle
spalle degli altri -uomini o animali -; ha messo i peccati degli altri sulle proprie
spalle: "Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce" (1 Pt 2,
24). Si può, allora, continuare a parlare di sacrificio, a proposito della morte
di Cristo e quindi della Messa? Per molto tempo lo studioso citato ha rifiutato questo
concetto, ritenendolo troppo segnato dall'idea di violenza, ma poi ha finito per ammetterne
la possibilità, a patto di vedere, in quello di Cristo, un genere nuovo di sacrificio,
e di vedere in questo cambiamento di significato "il fatto centrale nella storia
religiosa dell'umanità". * * * Visto in questa luce, il sacrificio di Cristo
contiene un messaggio formidabile per il mondo d'oggi. Grida al mondo che la violenza
è un residuo arcaico, una regressione a stadi primitivi e superati della storia umana
e - se si tratta di credenti - un ritardo colpevole e scandaloso nella presa di coscienza
del salto di qualità operato da Cristo. Ricorda anche che la violenza è perdente.
In quasi tutti i miti antichi la vittima è lo sconfitto e il carnefice il vincitore.
Gesù ha cambiato segno alla vittoria. Ha inaugurato un nuovo genere di vittoria che
non consiste nel fare vittime, ma nel farsi vittima. "Victor quia victima!", vincitore
perché vittima, così Agostino definisce il Gesù della croce . Il valore moderno
della difesa delle vittime, dei deboli e della vita minacciata è nato sul terreno
del cristianesimo, è un frutto tardivo della rivoluzione operata da Cristo. Ne abbiamo
la controprova. Appena si abbandona (come ha fatto Nietzsche) la visione cristiana
per riportare in vita quella pagana, si smarrisce questa conquista e si torna ad esaltare
"il forte, il potente, fino al suo punto più eccelso, il superuomo", e si definisce
quella cristiana "una morale da schiavi", frutto del risentimento impotente dei deboli
contro i forti. Purtroppo, però, la stessa cultura odierna che condanna la violenza,
per altro verso, la favorisce e la esalta. Ci si straccia le vesti di fronte a certi
fatti di sangue, ma non ci si accorge che si prepara ad essi il terreno con quello
che si reclamizza nella pagina accanto del giornale o nel palinsesto successivo della
rete televisiva. Il gusto con cui si indugia nella descrizione della violenza e la
gara a chi è il primo e il più crudo nel descriverla non fanno che favorirla. Il
risultato non è una catarsi del male, ma un incitamento ad esso. È inquietante che
la violenza e il sangue siano diventati uno degli ingredienti di maggior richiamo
nei film e nei videogiochi, che si sia attirati da essa e ci si diverta a guardarla. Lo
stesso studioso ricordato sopra ha messo a nudo la matrice da cui prende avvio il
meccanismo della violenza: il mimetismo, quella connaturata inclinazione umana a considerare
desiderabile le cose che desiderano gli altri e, quindi, a ripetere le cose che vedono
fare gli altri. La psicologia del "branco" è quella che porta alla scelta del "capro
espiatorio" per trovare, nella lotta contro un nemico comune - in genere, l'elemento
più debole, il diverso -, una propria artificiale e momentanea coesione. Ne abbiamo
un esempio nella ricorrente violenza dei giovani allo stadio, nel bullismo delle scuole
e in certe manifestazioni di piazza che lasciano dietro di sé rovina e distruzione.
Una generazione di giovani che ha avuto il rarissimo privilegio di non conoscere una
vera guerra e di non essere stati mai richiamati sotto le armi, si diverte (perché
si tratta di un gioco, anche se stupido e a volte tragico) a inventare delle piccole
guerre, spinti dallo stesso istinto che muoveva l'orda primordiale. * * * Ma
c'è una violenza ancora più grave e diffusa di quella dei giovani negli stadi e nelle
piazze. Non parlo qui della violenza sui bambini, di cui si sono macchiati sciaguratamente
anche elementi del clero; di essa si parla già abbastanza fuori di qui. Parlo della
violenza sulle donne. Questa è una occasione per far comprendere alle persone e alle
istituzioni che lottano contro di essa che Cristo è il loro migliore alleato. Si
tratta di una violenza tanto più grave in quanto si svolge spesso al riparo delle
mura domestiche, all'insaputa di tutti, quando addirittura essa non viene giustificata
con pregiudizi pseudo-religiosi e culturali. Le vittime si ritrovano disperatamente
sole e indifese. Solo oggi, grazie al sostegno e all'incoraggiamento di tante associazioni
e istituzioni, alcune trovano la forza di uscire allo scoperto e denunciare i colpevoli. Molta
di questa violenza è a sfondo sessuale. È il maschio che crede di dimostrare la sua
virilità infierendo contro la donna, senza rendersi conto che sta dimostrando solo
la sua insicurezza e vigliaccheria. Anche nei confronti della donna che ha sbagliato,
che contrasto tra l'agire di Cristo e quello ancora in atto in certi ambienti! Il
fanatismo invoca la lapidazione; Cristo, agli uomini che gli hanno presentato un'adultera,
risponde: "Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra con di lei" (Gv 8,
7). L'adulterio è un peccato che si commette sempre in due, ma per il quale uno solo
è stato sempre (e, in alcune parti del mondo, è tuttora) punito. La violenza contro
la donna non è mai così odiosa come quando si annida là dove dovrebbe regnare il reciproco
rispetto e l'amore, nel rapporto tra marito e moglie. È vero che la violenza non
è sempre e tutta da una parte sola, che si può essere violenti anche con la lingua
e non solo con le mani, ma nessuno può negare che nella stragrande maggioranza dei
casi la vittima è la donna. Ci sono famiglie (anche in Italia ) dove ancora l'uomo
si ritiene autorizzato ad alzare la voce e le mani sulle donne di casa. Moglie e figli
vivono a volte sotto la costante minaccia dell'"ira di papà". A questi tali bisognerebbe
dire amabilmente: "Cari colleghi uomini, creandoci maschi, Dio non ha inteso darci
il diritto di arrabbiarci e pestare i pugni sul tavolo per ogni minima cosa. La parola
rivolta a Eva dopo la colpa: "Egli (l'uomo) ti dominerà" (Gen 3,16), era una amara
previsione, non una autorizzazione. Giovanni Paolo II ha inaugurato la pratica
delle richieste di perdono per torti collettivi. Una di esse, tra le più giuste e
necessarie, è il perdono che una metà dell'umanità deve chiedere all'altra metà, gli
uomini alle donne. Essa non deve rimanere generica e astratta. Deve portare, specie
chi si professa cristiano, a concreti gesti di conversione, a parole di scusa e di
riconciliazione all'interno delle famiglie e della società. * * * Il brano
della Lettera agli Ebrei che abbiamo ascoltato continua dicendo: "Nei giorni della
sua carne, con alte grida e con lacrime egli offrì preghiere e suppliche a colui che
poteva salvarlo dalla morte". Gesù ha conosciuto in tutta la sua crudezza la situazione
delle vittime, le grida soffocate e le lacrime silenziose. Davvero, "non abbiamo un
sommo sacerdote che non possa patire con noi nelle nostre debolezze". In ogni vittima
della violenza Cristo rivive misteriosamente la sua esperienza terrena. Anche a proposito
di ognuna di esse egli dice: "L'avete fatto a me" (Mt 25, 40). Per una rara coincidenza,
quest'anno la nostra Pasqua cade nelle stessa settimana della Pasqua ebraica che ne
è l'antenata e la matrice dentro cui si è formata. Questo ci spinge a rivolgere un
pensiero ai fratelli ebrei. Essi sanno per esperienza cosa significa essere vittime
della violenza collettiva e anche per questo sono pronti a riconoscerne i sintomi
ricorrenti. Ho ricevuto in questi giorni la lettera di un amico ebreo e, con il suo
permesso, ne condivido qui una parte. Dice: "Sto seguendo con disgusto l'attacco
violento e concentrico contro la Chiesa, il Papa e tutti i fedeli da parte del mondo
intero. L'uso dello stereotipo, il passaggio dalla responsabilità e colpa personale
a quella collettiva mi ricordano gli aspetti più vergognosi dell'antisemitismo. Desidero
pertanto esprimere a lei personalmente, al Papa e a tutta la Chiesa la mia solidarietà
di ebreo del dialogo e di tutti coloro che nel mondo ebraico (e sono molti) condividono
questi sentimenti di fratellanza. La nostra Pasqua e la vostra hanno indubbi elementi
di alterità, ma vivono ambedue nella speranza messianica che sicuramente ci ricongiungerà
nell'amore del Padre comune. Auguro perciò a lei e a tutti i cattolici Buona Pasqua". E
anche noi cattolici auguriamo ai fratelli ebrei Buona Pasqua. Lo facciamo con le parole
del loro antico maestro Gamaliele, entrate nel Seder pasquale ebraico e da qui passate
nella più antica liturgia cristiana: "Egli ci ha fatti passare dalla schiavitù
alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dal lutto alla festa, dalle tenebre
alla luce, dalla servitù alla redenzione" Perciò davanti a lui diciamo: Alleluia"
.