La Messa in Coena Domini apre il Triduo Pasquale: la riflessione di mons. Camisasca
Questo pomeriggio alle 17.30, Benedetto XVI presiederà, nella Basilica di San Giovanni
in Laterano, la Santa Messa in Coena Domini, nella quale si fa memoria dell'istituzione
dell'Eucaristia e del sacerdozio e che apre il Triduo Pasquale. Proprio al sacerdozio
è dedicato l'ultimo libro di mons. Massimo Camisasca, superiore generale della
Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo, intitolato "Padre", edizioni
San Paolo. Rosario Tronnolone lo ha intervistato:
R. – Il sacerdozio
è una realtà necessaria alla vita della Chiesa e, secondo la Chiesa, alla vita del
mondo, perché attraverso il sacerdote, che consacrando il pane e il vino rende presente
il Corpo e il Sangue di Cristo, si realizza questo ponte tra la terra e il cielo,
questa cancellazione dei peccati degli uomini, questa strada di salvezza, questo curvarsi
di Dio sull’umanità, che è il cuore stesso del cristianesimo. E' poi una realtà di
servizio, di servizio al Corpo di Cristo che è la Chiesa. Io ho imparato ad amare,
servendo: è servendo Gesù che io ho imparato a conoscerLo ed ho imparato ad amarLo.
Così ho avuto la possibilità di servirLo, Lui mi ha permesso di entrare un po' nella
sua carità.
D. – Mons. Camisasca, perché – come lei
dice nel suo libro - per il sacerdote sono necessarie l’umiltà, la mitezza e la povertà
di Spirito?
R. – Perché il sacerdozio è anzitutto
relativo a Dio. Il sacerdote è un uomo che deve stare continuamente in ascolto di
Dio, perché non ha delle cose proprie da fare, delle parole proprie da dire e questo,
fra l’altro, è una osservazione radicale che io ho imparato leggendo gli scritti del
cardinale Ratzinger sul sacerdozio, che insistono molto su questo tema e sono molti
illuminanti al riguardo. E’ un uomo che ha da dire delle parole, ha da compiere delle
azioni che gli vengono suggerite e che addirittura gli vengono rese possibili dallo
Spirito di Dio. Il sacerdozio è un’imitazione del rapporto fra Gesù e il Padre e qui,
questo rapporto, è fra il sacerdote e Cristo. Quindi l’umiltà - intesa non come negazione
delle proprie doti o come affettazione, ma proprio come continua ricerca della volontà
di Dio – è la strada necessaria per poter vivere il sacerdozio.
D.
– Dall’umiltà si passa direttamente all’obbedienza. Che cos’è l’obbedienza?
R.
– L’obbedienza oggi è una virtù sconosciuta e addirittura misconosciuta. Si ritiene
cioè che l’obbedienza sia la virtù di chi rinuncia, la virtù – in questo caso fra
virgolette - di chi “rinuncia alla propria identità, alla propria libertà” e, quindi,
una virtù negativa. Io, al contrario, metto in luce non solo l’importanza, ma addirittura
la necessità dell’obbedienza. Obbedire vuol dire, appunto, mettersi in ascolto di
Dio, che parla attraverso gli uomini che Egli ha scelto per guidare la nostra esistenza.
Non c’è perciò vita cristiana senza obbedienza, anzi devo dire che l’obbedienza –
man mano che la si scopre - e non intesa come aderire a qualcuno irragionevolmente,
chiudendo gli occhi, chiudendo la ragione, chiudendo la propria fede, ma affidandoci
a qualcuno di cui si riconosce l’autorità divina - è una virtù esaltante, liberante.
Noi diventiamo liberi, proprio perché aderiamo a qualcuno. Questa è la dinamica dell’amore:
quando uno ama un’altra persona, aderisce a lei e – nello stesso tempo – scopre se
stesso. (Montaggio a cura di Maria Brigini)