La Chiesa pakistana chiede di non dimenticare le vittime delle violenze anticristiane,
dopo la morte dell'uomo arso vivo che rifiutava la conversione all'islam
Autorità politiche, mass-media, comunità internazionale e società civile aumentino
i loro sforzi per far luce sulla “situazione di sofferenza e precarietà dei cristiani
e delle minoranze religiose” in Pakistan. A chiederlo è mons. Lawrence John Saldanha,
arcivescovo di Lahore e presidente della Conferenza episcopale del Paese asiatico,
commentando gli ultimi drammatici episodi di violenza che hanno colpito la comunità
cristiana. Nei giorni scorsi, estremisti musulmani hanno dato fuoco ad un uomo, morto
ieri sera, e ad una donna, deceduta il 10 marzo, perché rifiutavano di convertirsi
all’islam. Si tratta di tragedie e testimonianze che non possono restare avvolte dal
silenzio, come sottolinea don Renato Sacco, di Pax Christi, intervistato da
Amedeo Lomonaco:
R. – A noi
viene chiesto prima di tutto di non dimenticare. Forse, anche questa notizia non ha
colpito molto i mass media. Invece, ci deve far riflettere su questo martirio dei
giorni nostri, di chi viene bruciato vivo o colpito da tutte quelle violenze legate
alla coerenza con le proprie scelte di fede.
D. –
Perché in Pakistan il seme del cristianesimo incontra purtroppo l’odio dell’estremismo
e del fanatismo?
R. - Credo che quando questo seme
si scontra con una strumentalizzazione della fede che non è liberazione, che non è
apertura, ma è totalitarismo o integralismo ci si trova davanti una ideologia di morte
e non di vita. Però, bisogna evitare la tentazione di criminalizzare tutto l’islam,
di vedere nell’islam la religione di per sé integralista. Io posso dire quello che
ho sentito in Iraq: anche dopo violenze, uccisioni, rapimenti, assassini fatti a sangue
freddo, non ho mai sentito dai cristiani parole di vendetta o di odio. Ho sentito
parole con le quali hanno chiesto e chiedono di sentirsi in comunione con tutta la
Chiesa. Questo credo sia un invito importante per noi cristiani in questi giorni di
Quaresima, di settimana Santa. Un invito ad evitare che quello che celebriamo sia
solo qualcosa di rubricistico, di formale, confinato solo sui libri. Oggi, ci sono
persone inchiodate sulla croce come Cristo. Oggi, ci sono martiri che pagano con la
vita e ci testimoniano non odio, non vendetta ma amore.
D.
– Dunque, sacrificare la propria vita per Cristo significa diventare testimoni dell’autentica
speranza, una speranza che domani animerà la Giornata di preghiera e di digiuno in
memoria dei missionari martiri. Quali frutti può dare il martirio?
R.
– Credo che i frutti del martirio siano il dare senso alla vita fino a perderla. La
vita è un dono talmente grande che si può anche donare fino in fondo. Si può anche
perdere, ma mai togliere a nessuno. Il martirio è proprio l’antitesi dell’odio e della
vendetta e noi davanti alla croce di Cristo, in vista della Risurrezione, abbiamo
un messaggio di amore, di perdono, di riconciliazione, mai di odio, mai di vendetta.
Allora, anche il chicco che muore produce molto frutto. Lo stiamo vedendo in tanti
luoghi dove dal sangue non nasce odio, nasce amore e forse per noi costiuisce l’impegno
più autentico di pace e di giustizia.