Udienza generale. Il Papa mette a confronto San Bonaventura e San Tommaso d'Aquino
Stamani il Papa ha tenuto l’udienza generale, per la prima volta quest’anno, in Piazza
San Pietro. Al centro della sua catechesi i diversi approcci alla ricerca filosofica
e teologica di San Bonaventura da Bagnoregio e San Tommaso d’Aquino. “San Tommaso
e san Bonaventura – ha detto il Papa - definiscono in modo diverso la destinazione
ultima dell’uomo, la sua piena felicità: per san Tommaso il fine supremo, al quale
si di-rige il nostro desiderio è: vedere Dio. In questo semplice atto del vedere Dio
trovano soluzione tutti i problemi: siamo felici, nient’altro è necessario. Per san
Bonaventura il destino ultimo dell’uomo è invece: amare Dio, l’incontrarsi ed unirsi
del suo e del nostro amore. Questa è per lui la definizione più adeguata della nostra
felicità.In tale linea, potremmo anche dire che la categoria più al-ta per san Tommaso
è il vero, mentre per san Bonaventura è il bene. Sarebbe sbagliato vedere in queste
due risposte una con-traddizione. Per ambedue il vero è anche il bene, ed il bene
è anche il vero; vedere Dio è amare ed amare è vedere. Si tratta di accenti diversi
di una visione fondamentalmente comune. Am-bedue gli accenti hanno formato tradizioni
diverse e spiritualità diverse e così hanno mostrato la fecondità della fede, una
nella diversità delle sue espressioni”. Ecco il testo integrale della catechesi. Cari
fratelli e sorelle, questa mattina, continuando la riflessione
di mercoledì scorso, vorrei approfondire con voi altri aspetti della dottrina di san
Bonaventura da Bagnoregio. Egli è un eminente teologo, che merita di essere messo
accanto ad un altro grandissimo pensatore, suo contemporaneo, san Tommaso d’Aquino.
Entrambi hanno scrutato i misteri della Rivelazione, valorizzando le risorse della
ragione umana, in quel fecondo dialogo tra fede e ragione che caratterizza il Medioevo
cristiano, facendone un’epoca di grande vivacità intellettuale, oltre che di fede
e di rinnovamento ecclesiale, spesso non sufficientemente evidenziata. Altre analogie
li accomunano: sia Bonaventura, francescano, sia Tommaso, domenicano, appartenevano
agli Ordini Mendicanti che, con la loro freschezza spirituale, come ho ricordato in
precedenti catechesi, rinnovarono, nel secolo XIII, la Chiesa intera e attirarono
tanti seguaci. Tutti e due servirono la Chiesa con diligenza, con passione e con amore,
al punto che furono invitati a partecipare al Concilio Ecumenico di Lione nel 1274,
lo stesso anno in cui morirono: Tommaso mentre si recava a Lione, Bonaventura durante
lo svolgimento del medesimo Concilio. Anche in Piazza San Pietro le statue dei due
Santi sono parallele, collocate proprio all’inizio del Colonnato partendo dalla facciata
della Basilica Vaticana: una nel Braccio di sinistra e l’altra nel Braccio di destra.
Nonostante tutti questi aspetti, possiamo cogliere nei due grandi Santi due diversi
approcci alla ricerca filosofica e teologica, che mostrano l’originalità e la profondità
di pensiero dell’uno e dell’altro. Vorrei accennare ad alcune di queste differenze. Una
prima differenza concerne il concetto di teologia. Ambedue i dottori si chiedono se
la teologia sia una scienza pratica o una scienza teorica, speculativa. San Tommaso
riflette su due possibili risposte contrastanti. La prima dice: la teologia è riflessione
sulla fede e scopo della fede è che l’uomo diventi buono, viva secondo la volontà
di Dio. Quindi, lo scopo della teologia dovrebbe essere quello di guidare sulla via
giusta, buona; di conseguenza essa, in fondo, è una scienza pratica. L’altra posizione
dice: la teologia cerca di conoscere Dio. Noi siamo opera di Dio; Dio sta al di sopra
del nostro fare. Dio opera in noi l’agire giusto. Quindi si tratta sostanzialmente
non del nostro fare, ma del conoscere Dio, non del nostro operare. La conclusione
di san Tommaso è: la teologia implica ambedue gli aspetti: è teorica, cerca di conoscere
Dio sempre di più, ed è pratica: cerca di orientare la nostra vita al bene. Ma c’è
un primato della conoscenza: dobbiamo soprattutto conoscere Dio, poi segue l’agire
secondo Dio (Summa Theologiae Ia, q. 1, art. 4). Questo primato della conoscenza in
confronto con la prassi è significativo per l’orientamento fondamentale di san Tommaso. La
risposta di san Bonaventura è molto simile, ma gli accenti sono diversi. San Bonaventura
conosce gli stessi argomenti nell’una e nell’altra direzione, come san Tommaso, ma
per rispondere alla domanda se la teologia sia una scienza pratica o teorica, san
Bonaventura fa una triplice distinzione – allarga, quindi, l’alternativa tra teorico
(primato della conoscenza) e pratico (primato della prassi), aggiungendo un terzo
atteggiamento, che chiama “sapienziale” e affermando che la sapienza abbraccia ambedue
gli aspetti. E poi continua: la sapienza cerca la contemplazione (come la più alta
forma della conoscenza) e ha come intenzione “ut boni fiamus” - che diventiamo buoni,
soprattutto questo: divenire buoni (cfr Breviloquium, Prologus, 5). Poi aggiunge:
“La fede è nell’intelletto, in modo tale che provoca l’affetto. Ad esempio: conoscere
che Cristo è morto “per noi” non rimane conoscenza, ma diventa necessariamente affetto,
amore” (Proemium in I Sent., q. 3). Nella stessa linea si muove
la sua difesa della teologia, cioè della riflessione razionale e metodica della fede.
San Bonaventura elenca alcuni argomenti contro il fare teologia, forse diffusi anche
in una parte dei frati francescani e presenti anche nel nostro tempo: la ragione svuoterebbe
la fede, sarebbe un atteggiamento violento nei confronti della parola di Dio, dobbiamo
ascoltare e non analizzare la parola di Dio (cfr Lettera di san Francesco d’Assisi
a sant’Antonio di Padova). A questi argomenti contro la teologia, che dimostrano i
pericoli esistenti nella teologia stessa, il Santo risponde: è vero che c’è un modo
arrogante di fare teologia, una superbia della ragione, che si pone al di sopra della
parola di Dio. Ma la vera teologia, il lavoro razionale della vera e della buona teologia
ha un’altra origine, non la superbia della ragione. Chi ama vuol conoscere sempre
meglio e sempre più l’amato; la vera teologia non impegna la ragione e la sua ricerca
motivata dalla superbia, “sed propter amorem eius cui assentit” – “motivata dall’amore
di Colui, al quale ha dato il suo consenso” (Proemium in I Sent., q. 2), e vuol meglio
conoscere l’amato: questa è l’intenzione fondamentale della teologia. Per san Bonaventura
è quindi determinante alla fine il primato dell’amore. Di
conseguenza, san Tommaso e san Bonaventura definiscono in modo diverso la destinazione
ultima dell’uomo, la sua piena felicità: per san Tommaso il fine supremo, al quale
si dirige il nostro desiderio è: vedere Dio. In questo semplice atto del vedere Dio
trovano soluzione tutti i problemi: siamo felici, nient’altro è necessario. Per
san Bonaventura il destino ultimo dell’uomo è invece: amare Dio, l’incontrarsi ed
unirsi del suo e del nostro amore. Questa è per lui la definizione più adeguata della
nostra felicità. In tale linea, potremmo anche dire che la
categoria più alta per san Tommaso è il vero, mentre per san Bonaventura è il bene.
Sarebbe sbagliato vedere in queste due risposte una contraddizione. Per ambedue il
vero è anche il bene, ed il bene è anche il vero; vedere Dio è amare ed amare è vedere.
Si tratta quindi di accenti diversi di una visione fondamentalmente comune. Ambedue
gli accenti hanno formato tradizioni diverse e spiritualità diverse e così hanno mostrato
la fecondità della fede, una nella diversità delle sue espressioni. Ritorniamo
a san Bonaventura. E’ evidente che l’accento specifico della sua teologia, del quale
ho dato solo un esempio, si spiega a partire dal carisma francescano: il Poverello
di Assisi, al di là dei dibattiti intellettuali del suo tempo, aveva mostrato con
tutta la sua vita il primato dell’amore; era un’icona vivente e innamorata di Cristo
e così ha reso presente, nel suo tempo, la figura del Signore – ha convinto i suoi
contemporanei non con le parole, ma con la sua vita. In tutte le opere di san Bonaventura,
proprio anche le opere scientifiche, di scuola, si vede e si trova questa ispirazione
francescana; si nota, cioè, che egli pensa partendo dall’incontro col Poverello d’Assisi.
Ma per capire l’elaborazione concreta del tema “primato dell’amore”, dobbiamo tenere
presente ancora un’altra fonte: gli scritti del cosiddetto Pseudo-Dionigi, un teologo
siriaco del VI secolo, che si è nascosto sotto lo pseudonimo di Dionigi l’Areopagita,
accennando, con questo nome, ad una figura degli Atti degli Apostoli (cfr 17,34).
Questo teologo aveva creato una teologia liturgica e una teologia mistica, ed aveva
ampiamente parlato dei diversi ordini degli angeli. I suoi scritti furono tradotti
in latino nel IX secolo; al tempo di san Bonaventura – siamo nel XIII secolo – appariva
una nuova tradizione, che provocò l’interesse del Santo e degli altri teologi del
suo secolo. Due cose attiravano in modo particolare l’attenzione di san Bonaventura: 1. Lo
Pseudo-Dionigi parla di nove ordini degli angeli, i cui nomi aveva trovato nella Scrittura
e poi aveva sistemato a suo modo, dagli angeli semplici fino ai serafini. San Bonaventura
interpreta questi ordini degli angeli come gradini nell’avvicinamento della creatura
a Dio. Così essi possono rappresentare il cammino umano, la salita verso la comunione
con Dio. Per san Bonaventura non c’è alcun dubbio: san Francesco d’Assisi apparteneva
all’ordine serafico, al supremo ordine, al coro dei serafini, cioè: era puro fuoco
di amore. E così avrebbero dovuto essere i francescani. Ma san Bonaventura sapeva
bene che questo ultimo grado di avvicinamento a Dio non può essere inserito in un
ordinamento giuridico, ma è sempre un dono particolare di Dio. Per questo la struttura
dell’Ordine francescano è più modesta, più realista, ma deve, però, aiutare i membri
ad avvicinarsi sempre più ad un’esistenza serafica di puro amore. Mercoledì scorso
ho parlato su questa sintesi tra realismo sobrio e radicalità evangelica nel pensiero
e nell’agire di san Bonaventura. 2. San Bonaventura, però,
ha trovato negli scritti dello Preuso-Dionigi un altro elemento, per lui ancora più
importante. Mentre per sant’Agostino l’intellectus, il vedere con la ragione ed il
cuore, è l’ultima categoria della conoscenza, lo Pseudo-Dionigi fa ancora un altro
passo: nella salita verso Dio si può arrivare ad un punto in cui la ragione non vede
più. Ma nella notte dell’intelletto l’amore vede ancora – vede quanto rimane inaccessibile
per la ragione. L’amore si estende oltre la ragione, vede di più, entra più profondamente
nel mistero di Dio. San Bonaventura fu affascinato da questa visione, che s’incontrava
con la sua spiritualità francescana. Proprio nella notte oscura della Croce appare
tutta la grandezza dell’amore divino; dove la ragione non vede più, vede l’amore.
Le parole conclusive del suo “Itinerario della mente in Dio”, ad una lettura superficiale,
possono apparire come espressione esagerata di una devozione senza contenuto; lette,
invece, alla luce della teologia della Croce di san Bonaventura, esse sono un’espressione
limpida e realistica della spiritualità francescana: “Se ora brami sapere come ciò
avvenga (cioè la salita verso Dio), interroga la grazia, non la dottrina; il desiderio,
non l’intelletto; il gemito della preghiera, non lo studio della lettera; … non la
luce, ma il fuoco che tutto infiamma e trasporta in Dio” (VII, 6). Tutto questo non
è anti-intellettuale e non è anti-razionale: suppone il cammino della ragione, ma
lo trascende nell’amore del Cristo crocifisso. Con questa trasformazione della mistica
dello Pseudo-Dionigi, san Bonaventura si pone agli inizi di una grande corrente mistica,
che ha molto elevato e purificato la mente umana: è un vertice nella storia dello
spirito umano. Questa teologia della Croce, nata dall’incontro
tra la teologia dello Pseudo-Dionigi e la spiritualità francescana, non ci deve far
dimenticare che san Bonaventura condivide con san Francesco d’Assisi anche l’amore
per il creato, la gioia per la bellezza della creazione di Dio. Cito su questo punto
una frase del primo capitolo dell’”Itinerario”: “Colui… che non vede gli splendori
innumerevoli delle creature, è cieco; colui che non si sveglia per le tante voci,
è sordo; colui che per tutte queste meraviglie non loda Dio, è muto; colui che da
tanti segni non si innalza al primo principio, è stolto” (I, 15). Tutta la creazione
parla ad alta voce di Dio, del Dio buono e bello; del suo amore. Tutta
la nostra vita è quindi per san Bonaventura un “itinerario”, un pellegrinaggio – una
salita verso Dio. Ma con le nostre sole forze non possiamo salire verso l’altezza
di Dio. Dio stesso deve aiutarci, deve “tirarci” in alto. Perciò è necessaria la preghiera.
La preghiera - così dice il Santo - è la madre e l’origine della elevazione - “sursum
actio”, azione che ci porta in alto - dice Bonaventura. Concludo perciò con la preghiera,
con la quale comincia il suo “Itinerario”: “Preghiamo dunque e diciamo al Signore
Dio nostro: ‘Conducimi, Signore, nella tua via e io camminerò nella tua verità. Si
rallegri il mio cuore nel temere il tuo nome’ ” (I, 1).