La visita ad Limina dei vescovi ugandesi. Mons. Franzelli: la vera sfida nel Paese
è ricostruire i cuori feriti da oltre 20 anni di conflitto interno
Uno Stato che vive sperequazioni sociali, che in alcune regioni ha vissuto per oltre
vent’anni dolorosi conflitti e ora è in cerca di riconciliazione, dove c’è tanto da
ricostruire e l’economia è da riavviare. È l’Uganda, i cui vescovi sono in questi
giorni in Vaticano per la visita ad Limina. Al microfono di Tiziana Campisi
il vescovo di Lira, mons. Giuseppe Franzelli, descrive il suo incontro con
il Papa e la realtà ugandese:
R. – E' stato
un incontro molto bello con un Papa attento, oltre che molto accogliente, desideroso
di ascoltare ed anche molto informato di quella che è la realtà locale. Le sue osservazioni
sono puntuali, così come le sue domande sono puntuali: Pietro che accoglie un fratello
e che è interessato a mantenere questo legame di unione, questa comunione che ci fa
tutti membri di una sola famiglia, la grande famiglia di Dio, che è la Chiesa in Africa. D.
– Voi vescovi dell’Uganda che realtà avete presentato al Papa? R.
– La realtà di una società e di una nazione che vive al suo interno grandi contraddizioni,
caratterizzata da un fenomeno molto grande di povertà, che diventa addirittura miseria,
con alcuni che hanno moltissimo, anzi troppo, ed altri che hanno poco o nulla. Una
società ferita, specialmente per quanto riguarda la zona del nord, in cui io lavoro:
stiamo infatti uscendo ora dal tunnel di questi 20-23 anni di guerriglia dell’Esercito
di resistenza del signore, e dove bambini, uomini e donne hanno visto con i loro occhi,
hanno subito e, alle volte hanno anche loro stessi praticato, la violenza e l’hanno
respirata per 20 anni. E’ una società che ha veramente bisogno di una evangelizzazione,
di una buona notizia, la più profonda, che tocchi il cuore delle persone e faccia
riscoprire che siamo tutti fratelli, perché c’è un altro sangue – quello di Cristo
– che ci unisce, che va al di là e che è più forte del legame naturale della tribù,
del partito di appartenenza o della classe sociale. Si tratta di affrontare la sfida
di una ricostruzione, che non è soltanto quella economica e materiale – quindi di
case, di istituzioni distrutte – di un’economia che non ha prodotto, perché la gente
era nei campi di sfollamento, ma quella di una ricostruzione e di una guarigione spirituale.
E’ qui che il Vangelo diventa più che mai attuale ed urgente. D.
– In che modo si inserisce la Chiesa in questa realtà? R. –
Essendo un seme, un appello e soprattutto un esempio concreto che la riconciliazione
è possibile, che è possibile anche una maggiore giustizia di fronte a tante, tantissime
ingiustizie e violenze e che è davvero possibile vivere in pace e in armonia anche
fra gente diversa: fra gente che si è magari si è trovata su fronti opposti e che
ora può e deve – perché non c’è altra alternativa – imparare, anche se non è facile,
a vivere insieme, a collaborare, a guardarci in modo diverso, come fratelli e sorelle,
proprio perché tutti figli dello stesso Padre. D. – Di che cosa
necessita la Chiesa in Uganda? R. – Di un sacco di cose, anche
perché abbiamo problemi strutturali anche grossi, dal punto di vista di personale
anzitutto. Io ho soltanto una quarantina di sacerdoti e ce ne vorrebbero molti di
più: ho 18 parrocchie in un territorio di oltre 12 mila chilometri quadrati, con un
milione e 800 mila abitanti. C’è, quindi, un problema di vocazioni, di preti e di
suore che abbiano la visione giusta del sacerdozio e della vita consacrata, come di
una vita spesa per gli altri, al servizio degli altri, e non in vista di una carriera
o di una promozione personale. Ci sono poi i problemi relativi alla povertà dei mezzi:
c’è ancora bisogno di costruire, di ricostruire strutture che sono state distrutte
e diventa sempre più difficile trovare aiuti per questo o per quello. La Chiesa in
Uganda ha, poi, bisogno di conversioni e di essere sempre più autentica, essendo la
Chiesa di Cristo, e quindi di porsi nella situazione come lo ha fatto Gesù.