Elezioni insanguinate in Iraq: decine di morti in vari attentati
Sangue in Iraq nel giorno delle elezioni politiche, che dovranno eleggere il secondo
parlamento del dopo-Saddam. Malgrado le eccezionali misure di sicurezza, sono già
una ventina le vittime per una serie di attentati che si sono verificati nella capitale
Baghdad a poche ore dall’apertura delle urne. La violenza non condizionerà il voto,
ha detto il premier uscente, al Maliki. Trecentomila gli osservatori internazionali
a vigilare sulla tornata, mentre modesta, secondo i media, è l’affluenza ai seggi
che chiuderanno alle 17 ora locale, le 15 italiane. Ma cosa rappresentano queste elezioni
per l’Iraq? Al microfono di Benedetta Capelli, risponde Riccardo Redaelli,docente di Geopolitica all'Università Cattolica di Milano:
R. – Rappresentano
molte cose e tutte significative. Anzitutto, sono le prime elezioni veramente irachene:
le precedenti – quelle del 2005 – avvenivano ancora in un quadro molto incerto e fortemente
influenzato dalle violenze, dalla quasi guerra civile, dalle violenze di al Qaeda
ed erano pesantemente controllate e gestite dalla comunità internazionale e dagli
Stati Uniti. Un’altra differenza è che si è indebolito, si è incrinato il voto settario:
mentre nel 2005 i grandi partiti e le grandi alleanze elettorali riflettevano l’identità
etno-religiosa e, quindi, l’alleanza curda e l’alleanza sciita, oggi vi sono molte
più formazioni, molte più alleanze e in tanti casi davvero trasversali e che includono
sia sunniti, sia sciiti. Un altro elemento importante – ma ahimè non positivo – è
l’estrema durezza e competizione politica, con una serie di candidati squalificati
e poi parzialmente riammessi, seppure "sub iudice", oppure con mandati di arresto,
accuse infamanti che vengono utilizzate per delegittimare i vari avversari politici. D.
– Lei ha parlato di partiti. Vogliamo fare una carrellata sulle formazioni che, almeno
sulla carta, sono le più accreditate a vincere? R. – I partiti
teorici sono quasi 300, un numero immenso. Diciamo però che si sono raggruppati in
una serie di alleanze elettorali. La prima è la cosiddetta lista “State of law”, lista
del premier al Maliki che punta a rafforzare il ruolo del governo centrale e che presenta
un cartello, anche se soprattutto sciita, trasversale e molti sono gli indipendenti.
Questo è il gruppo accreditato con maggiori possibilità di successo. Vi è poi l’”Alleanza
nazionale irachena”, che rappresenta il resto della grande alleanza elettorale sciita
e che è stata voluta dall’ayatollah al Sistani. Questa alleanza è più marcatamente
sciita e più marcatamente religiosa. C’è poi l’"Alleanza patriottica del Kurdistan”,
che raggruppa i due gruppi curdi storici, un tempo avversari e che oggi per convenienza
sono alleati. C’è poi il gruppo dell’ex primo ministro Allawi, che è su una base
davvero trasversale, nazionalista e fortemente secolare e quindi contro le ingerenze
religiose e contro il federalismo spinto e voluto dai curdi. Ci sono poi una serie
di liste minori. D. – L’appuntamento elettorale è stato legato
ad episodi di violenza, ad episodi di tensione. Secondo lei, la comunità internazionale
è più preoccupata per le conseguenze di un voto che può essere e può risultare frammentato? R.
– La sicurezza, sì, preoccupa. Ci sono stati molti attentati, ma il quadro generale
della sicurezza ha tenuto. Lo scenario non è crollato. Più pericolosa è la frammentazione:
il sistema elettorale iracheno è puramente proporzionale e quindi più liste ci sono
e più è difficile è che qualcuno raggiunga la maggioranza assoluta. Di fatto, è visto
come impossibile. Ciò renderà obbligatorio un voto di coalizione e questo significa
lunghissime trattative, negoziazioni, giochi e mosse che possono produrre un lungo
periodo di incertezza. A questo la comunità internazionale guarda con preoccupazione
ed anche – ahimè – qualche Paese attorno guarda per poterne sfruttare la debolezza
e magari invertire il nuovo corso iracheno. D. – Cosa può attendersi,
secondo lei, la minoranza cristiana da questo voto? R. – Purtroppo,
i cristiani sono – per così dire – il "vaso di coccio" in Iraq e come tutte le minoranze
vengono usate cinicamente dai principali partiti e soprattutto i cristiani, proprio
perché hanno una grande visibilità, hanno una grandissima storia. A parole, tutti
difendono i cristiani. Nei fatti c’è, però, una forte sottovalutazione del pericolo
che i cristiani iracheni vengano sradicati dalla loro terra e che si spezzi questo
legame tra comunità e terra. Il rischio è quello che i cristiani diventino sempre
più profughi o all’interno del Paese e quindi in ghetti o che abbandonino l’Iraq e
vadano verso l’Occidente o verso altri Paesi del Medio Oriente. Da soli, non ce la
possono fare. E’ fondamentale un maggiore impegno ed una maggiore attenzione da parte
della comunità internazionale, finora invero molto distratta.