2010-03-02 15:06:24

Alla Pontificia Università Gregoriana Giornata di studi su padre Matteo Ricci, il gesuita che si fece "cinese tra i cinesi"


“In tutto mi accomodai a loro” è il titolo dell’odierna Giornata di studio su padre Matteo Ricci, promossa dalla Pontificia Università Gregoriana di Roma. La figura del gesuita che si fece “cinese tra i cinesi” viene analizzata sotto diversi punti di vista, a partire dal processo di inculturazione fino alla sua importanza nell’attuale evangelizzazione della Cina. Il servizio di Benedetta Capelli:RealAudioMP3

E’ in quell’accomodarsi a tutto la chiave per leggere la figura di Matteo Ricci. Perché in essa c’è il percorso del gesuita e la rottura della “cortina di diffidenza” che isolava “il suo mondo da quello circostante”. Il concetto espresso da padre Gianfranco Ghirlanda, rettore della Pontificia Università Gregoriana, ha introdotto il “modello di approccio apostolico che Ricci per primo attuò”. Un modello che – sulla scia degli insegnamenti di padre Alessandro Valignano, missionario in Estremo Oriente – si avvicina oggi a “quello che definiremmo "dialogo interculturale" e "dialogo interreligioso" per giungere ad un’inculturazione della fede”. Padre Ghirlanda ha definito Ricci un “riferimento imprescindibile” sia per la specificità della vocazione apostolica della Compagnia di Gesù, sia per il modello di missione da lui sperimentato e compiuto con “travaglio, patimento, sudore e diligenza”. Il rettore dell’ateneo ha sottolineato poi il legame tra la Pontificia Università Gregoriana e Matteo Ricci costituito dal Collegio Romano, di cui l’Università è continuatrice, e dove il maceratese studiò tra il 1573 e il 1577. Pertanto, la sua figura resta ad oggi un esempio per la conoscenza della religione e la cultura degli altri.

 
Proprio “sull’altro” ha ruotato l’intervento di don Mario Florio, docente dell’Istituto teologico marchigiano, che partendo dagli inizi di Matteo Ricci in Cina ha ricostruito l’itinerario che portò al metodo dell’inculturazione inteso in una “dinamica processuale” e in costante “costruzione o elaborazione nella relazione interattiva con l’altro”. Infatti, l’originalità del gesuita sta nel non partire da “un piano preformato” o da “una strategia già esistente”, ma in un modo di agire che richiese “una notevole capacità di ascolto dell’altro, in una sospensione della propria identità culturale, una vera e propria kenosi del proprio sé, incluso il proprio modo di essere cristiano per permettere la creazione di uno spazio fecondo per l’inculturazione del messaggio cristiano”. Il “farsi cinese tra i cinesi”, dunque, passato attraverso lo studio della lingua e attraverso il proprio corpo indossando l’abito grigio dei monaci buddisti e portando barba e capelli rasati. Un modo di essere che risponde al meglio a quanto ricordava Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi parlando di evangelizzazione a partire dalla persona e “tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio”. Matteo Ricci diventa così “mediatore culturale” che “sa qualificare a partire dall’altro il messaggio che vuole veicolare” e che trova nei “varchi simbolici” – la lingua ma anche la cultura occidentale di cui si è portatori – uno snodo significativo.

 
Ma cosa rappresenta Matteo Ricci per l’attuale evangelizzazione della Cina? Da questa domanda è partita la relazione di Augustine Tsang Hing-to del Fu Jen Catholic University di Taiwan, che ha ricordato il gesuita maceratese come “uomo del dialogo”, ma dialogo inteso come “dialogo di vita”, “dialogo di lavoro”, “dialogo teologico”, rappresentato soprattutto dal libro “Genuina nozione di Dio”. Lo studioso, dopo aver esaltato il metodo di Matteo Ricci in Cina, ha poi evidenziato il grande sviluppo del Paese asiatico ma anche le difficoltà interne che non favoriscono l’evangelizzazione.







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