Al Festival di Berlino il lato scuro dell’Estremo Oriente: la Cina noir e il Giappone
postbellico
Come una macchina del tempo, alternando stili e ispirazioni, il 60.mo Festival di
Berlino passa, nel corso di due giorni, dalla Cina immaginaria di qualche secolo fa
al Giappone della seconda guerra mondiale, al nostro mondo contemporaneo. Ambientato
in una sorta di “far east” antico e fuori dal tempo, “A Woman, a Gun and a Noodle
Soup” di Zhang Yimou racconta di una locanda isolata, di un proprietario sadico, di
una moglie giovane e infedele, di servitori avidi e disonesti, di un investigatore
imperiale crudele e corrotto. Commedia noir, che si vorrebbe piena di colpi di scena
e di momenti di comicità, in realtà il film risente di un gusto umoristico troppo
lontano dal nostro e contiene un’unica scena memorabile, quella in cui nella cucina
della locanda quattro inservienti lavorano e si lanciano al volo l’impasto per gli
spaghetti. Molto più efficace, nella sua critica alla follia nazionalistica del Giappone,
“Caterpillar” di Wakamatsu Koji trasporta lo spettatore nel clima livido e surreale
del Paese in guerra, con i soldati impegnati sul fronte in ogni sorta di violenza
e le donne nelle retrovie a sostenere col lavoro lo sforzo bellico. Il ritorno a casa
di un reduce ridotto ad un tronco umano, sordo, sfigurato, senza braccia e senza gambe,
ma iperdecorato e per questo considerato un “dio della guerra”, innesta nella convenzionale
e quieta routine familiare una serie complessa di reazioni emotive che mescolano pietà,
crudeltà, umiliazione, disgusto, fino al momento in cui il protagonista riesce a specchiarsi
nell’acqua e a vedere nel suo volto il volto sconfitto e colpevole della nazione.
Melodramma spietato e senza riscatto, “Caterpillar” tenta di dare una spiegazione
alle cose della Storia. Pura fenomenologia, senza approfondimenti psicologici, risulta
invece “Der Räuber” di Benjamin Heisenberg, che racconta con grande abilità e senza
molte parole la parabola insensata di un ex-carcerato, ossessionato dalla corsa e
dai colpi in banca. Ispirato ad una storia vera, il film si nutre dell’interpretazione
fisica del suo protagonista, autore di vere e proprie performance atletiche, lasciandoci
sorpresi e interdetti di fronte alla conferma delle stranezze della vita e dell’imprevedibilità
degli esseri umani. Non molto diverso, seppure orientato verso il sorriso, è l’effetto
che produce “Exit through the Gift Shop”, un documentario intriso di elementi di finzione
che racconta il mondo segreto della “street art”, fatto di gesti provocatori, di audaci
acrobazie e di abile marketing. Realizzato da uno dei più famosi “graffitari” del
mondo, Bansky, il cui volto resta ancor oggi sconosciuto, il film, gradevole e autoironico,
solleva gli entusiasmi del pubblico giovanile, ma resta interessante anche per chi
è estraneo al fenomeno, in quanto rivela tempi e modi di un procedimento artistico
destinato a lasciare una traccia nella Storia. (A cura di Luciano Barisone)