2010-02-06 14:16:20

La crisi economica mondiale alla luce della “Caritas in veritate”: intervista con il prof. Gotti Tedeschi, presidente dello Ior


A poco più di sei mesi dalla pubblicazione della "Caritas in veritate" di Benedetto XVI, il prof. Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, traccia un bilancio dell'Enciclica per il settimanale informativo "Octava Dies" del Centro Televisivo Vaticano. L'intervista è di Alessandro Di Bussolo.RealAudioMP3

D. Professor Gotti Tedeschi, il Papa nell’Enciclica “Caritas in veritate”, dice che non c’è vera crescita se crolla la natalità e manca il rispetto per la vita, ricordando che non si può considerare “l’aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo”. Si può dire allora che la crisi sia frutto di una crescita drogata e non più sostenibile con questi bassi livelli di natalità?

 
R. – L’origine vera della crisi - io personalmente su questo non ho dubbi – è il crollo della natalità nei Paesi occidentali. Negli anni ’75 le teorie cosiddette dei neo-malthusiani predissero che se il tasso di popolazione fosse continuano a crescere come era cresciuto negli ultimi anni – intorno cioè al 4-4.5 per cento - prima del Duemila, milioni di persone sarebbero morte di fame, soprattutto in Asia e in India. Questo già la dice lunga sulle capacità previsionali che riguardano l’uomo fatte da sedicenti sociologi-economisti. Nel mondo cosiddetto emergente o Terzo, Quarto mondo, siccome non sapevano leggere i libri sulla bomba demografica, hanno continuato tranquillamente a far figli, hanno anzi migliorato le loro condizioni di vita grazie alla sanità, alla migliore alimentazione e così via? Nel mondo occidentale, invece, il tasso di sviluppo della popolazione crolla, da un 4-4.5 per cento degli anni ’75, ad uno zero per cento. Lo zero per cento di tasso di crescita della popolazione non vuol dire che non si fanno figli, ma vuol dire che si fanno 2 figli a coppia. Allora cosa succede se la popolazione non cresce? Teoricamente la popolazione deve accettare una austerità, che è legata al fatto che non nascendo le persone - non è che restando uguale il numero della popolazione, resta inalterata anche la sua struttura - la sua struttura cambia. E questo perché crollando le nascite, ci sono meno persone giovani che entrano nel mondo del lavoro produttivamente e ci sono molte più persone anziane che escono dal sistema produttivo e diventano un costo per la collettività. In pratica: se la popolazione non cresce, i costi fissi di questa struttura economica e sociale aumentano, quanto drammaticamente dipende da quanto è evidentemente squilibrata la struttura della popolazione e quant’è la sua ricchezza. I costi fissi però aumentano: aumentano i costi della sanità e aumentano i costi sociali. Non solo: non si possono più diminuire le tasse. C’è poi un altro fenomeno che impatta grazie al non tasso di crescita delle popolazione nell’economia, ed è il crollo del risparmio. I giovani che non hanno lavoro spostano il ciclo di accumulazione del risparmio di anni; le famiglie non si formano; molto spesso non si formano famiglie con un certo numero di impegni nei confronti dei figli, cosicché il risparmio si estingue. A questo punto quando il crollo dello sviluppo del mondo occidentale è dovuto alla non natalità diventa un fatto preoccupante. Ci si inventa il tentativo di compensare questo crollo dello sviluppo attraverso attività finanziarie e quindi anzitutto con la delocalizzazione – si cerca di trasferire tutte quelle produzioni in Asia, per riportarle al nostro interno a costi minori; e con una maggior produttività, ma la maggior produttività ha dei limiti. Il sistema incomincia a crescere grazie all’indebitamento delle famiglie. Chiunque può aumentare il suo prodotto interno lordo. Se io ho un prodotto interno lordo di 100 e voglio andare a 120-130, questo è facilissimo se una banca mi finanzia per 20 o per 30. Ma quello è un prodotto interno lordo non sostenibile sul lungo termine, perché io devo garantire di poterlo pagare. Le faccio un esempio: negli ultimi 10 anni, il tasso di indebitamento delle famiglie americane, già abbastanza alto (che era il 68 per cento del prodotto interno lordo nel 1998 circa) dal 68 per cento passa nel 2008 al 96 per cento del prodotto interno lordo, aumenta cioè di 28 punti. Se lei prende 28 punti percentuali di crescita su 10 anni e lo divide per 10 anni, ha una media del tasso di crescita del 2.8 per cento all’anno dovuto esclusivamente al consumismo a debito delle famiglie americane. In pratica, questa è stata l’origine della crisi, fino poi ad arrivare agli eccessi dei cosiddetti subprime. L’origine per cui lo strumento finanziario, la leva a debito, l’espansione del credito è stata fatta è per compensare il tasso di crescita dello sviluppo dell’economia legato al fatto che non nascevano figli.

 
D. - Gli ultimi interventi del presidente statunitense Obama contro il gigantismo delle banche, il ritorno dei superbonus ai manager… Lei crede che le opportunità di cambiamento legate alla crisi non sono state colte o c’è ancora tempo per recuperare i principi dell’etica sociale nell’economia?

 
R. – Anzitutto ritengo che si sia esagerato nell’incolpare i banchieri e i finanzieri dell’origine della crisi. L’origine della crisi non è nelle banche e nella finanza. Le banche e la finanza hanno concorso ad aggravare la crisi nelle sue origini, cercando di compensare dei problemi che erano stati generati precedentemente e cioè il crollo dello sviluppo economico, che si è cercato di camuffare attraverso l’uso di strumenti finanziari. Se posso addirittura, quindi, essere molto polemico, dirò che più che i banchieri hanno avuto responsabilità alcuni governanti, che hanno stimolato, supportato e giustificato quell’espansione creditizia che venne utilizzata per sostenere un tasso di crescita che è stato riconosciuto essere fittizio. Il debito totale dei governi, delle famiglie, delle istituzioni finanziarie e delle istituzioni non finanziarie e di quelle industriali, oggi deve essere sgonfiato. Sgonfiamento vuol dire che prenderà fra i 5 e i 7 anni, in Paesi maturi come l’Europa e gli Stati Uniti, per potersi ridimensionare, per poter ritornare a dei criteri accettabili. Questo significa che per 5-7 anni abbiamo di fronte a noi delle scelte di strategia economico-finanziaria che non sono molto eccitanti. Nel senso che se non vogliamo dichiarare alcune bancarotte - e qualche piccolo Stato può poterla dichiarare - non dimentichiamo l’Argentina; se non vogliamo inflazionare questo debito e, quindi, ridurlo attraverso una accelerazione dell’inflazione, che penalizzerebbe tutti; se non abbiamo grandi opportunità di shock, come qualche economista o banchiere ogni tanto richiama - non vedo quali shock potremmo avere, forse le biotecnologie o una nuova Silicon Valley – c’è soltanto un modo per ricostituire un equilibrio economico-finanziario, che si chiama austerità.

 
D. – Nella sua enciclica, Benedetto XVI insiste sulla necessità di guidare la globalizzazione, con un “orientamento culturale personalista e comunitario”, chiedendo di istituire “un grado superiore di ordinamento internazionale”. Sono obiettivi che possono entrare presto nell’agenda politica mondiale?

 
R. - Se l’uomo non ha un pensiero forte che lo aiuti a capire cosa vuol dire dare un senso ad uno strumento delle dimensioni e dell’importanza della globalizzazione, finirà che la globalizzazione si impossesserà dello stesso pensiero. Se non è il pensiero a determinare il comportamento, sarà il comportamento ad influenzare il pensiero. Perché non è facile? Perché noi stiamo globalizzando varie culture, molto diverse. Prendiamo le tre grandi aree, prescindo poi da quelle minori. La grande area nord americana, da un punto di vista della cultura è protestante americana, molto liberal, molto aperta, molto liberista, molto determinata, però con una capacità di comportamento che ogni tanto può sorprendere noi europei, che siamo sempre abituati a domandarci se quello che facciamo è bene o è male, magari perdendo anche un po’ tempo. Loro magari esagerano un poco nell’attivismo, nel decisionismo, per poi pentirsi successivamente. Quindi, già il modello americano ha una visione culturale di come si fanno le cose che non è quello europeo. Andiamo all’Asia: pensiamo soltanto che in Asia abbiamo già una Cina e un’India, che sono dominanti. Che cultura religiosa ha la Cina? Qual è l’educazione cinese? C’è un po’ di confucianesimo, un po’ di buddismo e un po’ di maoismo, mixato tutto insieme. Allora, cos’è per loro dire la verità, mantenere la parola, il senso del dovere, il senso dell’obbedienza? E’ il nostro? Non lo so. E poi ci sono due Paesi emergenti - l’America Latina la lascerei da parte – ma ce n’è uno che preoccupa di più, in questo scenario internazionale, che è l’Africa. L’Africa che noi ex colonialisti europei abbiamo sempre disdegnato, l’abbiamo sempre considerata un qualcosa da utilizzare secondo l’occorrenza, per poi aiutarla anche a crescere, perché gran parte della crescita intellettuale dell’Africa è dovuta al fatto che il buon colonialismo europeo ha dato anche tanti valori: i Paesi che sono stati colonizzati sono quelli che si sono evoluti prima, senza nessun dubbio. Però oggi l’Africa sta per essere conquistata dai cinesi, da due punti di vista: come risorse e materie prime e come manodopera. L’africano sta diventando la manodopera a basso costo del cinese. Ma il cinese ha la stessa visione dell’uomo che abbiamo noi? Queste sono le grandi domande, che secondo me il Pontefice si sta ponendo. Ecco perché è preoccupato, in un processo di globalizzazione, di quali siano i valori dell’uomo. Oggi c’è una sola grande ed unica autorità morale, che continua a richiamare, per tutti e in tutte le condizioni, il valore dell’uomo: il Papa della Santa Chiesa cattolica apostolica romana. Io non ne conosco nessun altro.

 
D. – Per sostenere lo sviluppo dell’intera famiglia umana, Benedetto XVI fa riferimento al principio di sussidiarietà, e all’”autonomia dei corpi intermedi”, bocciando invece le forme di “assistenzialismo paternalista”. E’ un modello che si sta affermando o c’è ancora molto da fare nella gestione degli aiuti internazionali?

 
R. - Ci sono due tipi di sussidiarietà, che secondo me il Pontefice delinea nella stessa enciclica. Il primo è la sussidiarietà dell’individuo verso lo Stato. Un caso tipico è la situazione americana. Gli americani sono stati utilizzati per 15 anni per sostenere a debito la crescita del prodotto interno lordo americano che vacillava. E gli Stati Uniti, come sappiamo, hanno avuto anche dei periodi complessi - pensiamo all’11 settembre del 2001 - dovendo ricostruire un atteggiamento nei confronti del terrorismo, come grandi guardiani dell’umanità, probabilmente aumentando notevolmente le loro spese anche di difesa, e le spese si pagano. Ecco l’esigenza di una crescita del pil. Una spesa forte nella difesa, per gli armamenti, dopo l’11 settembre, che è aumentata negli anni successivi con tassi del 14, 15 per cento all’anno, deve essere sostenuta dalla crescita di un prodotto interno lordo. Da qui l’esigenza di far crescere il prodotto interno lordo. E come si fa a farlo crescere? Ecco l’abitudine americana: si lascia la libertà nell’individuo di farlo; lo si mette in condizione di farlo: tassi bassi e attrattiva per una forma di consumismo. Dopo 10 anni le famiglie americane sono diventate povere, hanno perso una grande parte dei loro investimenti liquidi, hanno perso una gran parte del valore della loro casa, che non hanno ancora pagato, hanno perso una parte del fondo pensione, che è privato notoriamente, si sono indebitate per due o tre anni e rischiano di perdere il posto di lavoro. In pratica, le famiglie sono entrate sussidiarie all’esigenza di crescita dello Stato. Ecco la sussidiarietà negativa. Poi c’è una seconda sussidiarietà pericolosa, quella dei Paesi del terzo mondo, che sono utilizzati, ogni tanto anche gestiti, in modo tale da poter avere dei vantaggi nei loro confronti – le materie prime, il problema della manodopera – dimenticandosi completamente di loro, quando questi vantaggi non sono più gestibili, utilizzabili. Invece di stimolare le famiglie e la società a ricominciare a credere nel futuro e a fare figli - perché noi non facciamo figli, noi facciamo meno figli del tasso di sostituzione, infastidendoci poi dei progetti di immigrazione che ci danno fastidio - abbiamo smesso di far figli e abbiamo creato una situazione, un contesto economico negativo di decrescita, e decrescita vuol dire maggior austerità. Ma noi non vogliamo essere più austeri nel nostro stile di vita, noi non vogliamo la sobrietà. La sobrietà non la cerchiamo e se per caso si avvicina la fuggiamo.







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