“La fede dei cattolici d’Oceania viene attaccata da consumismo, materialismo, edonismo:
per questo oggi ci gioviamo in una ‘missione di ritorno’. Siamo infatti evangelizzati
dai fedeli delle terre che hanno ricevuto da noi aiuti missionari”: è quanto afferma
in un colloquio con l’agenzia Fides padre Paul Shannahan, missionario e direttore
delle Pontificie Opere Missionarie in Nuova Zelanda, tracciando un quadro delle sfide
della missione in Oceania. “In Oceania il quadro è composito: vi sono nazioni del
‘primo mondo’, come Australia e Nuova Zelanda, e nazioni del ‘terzo mondo’, come gli
arcipelaghi della Polinesia e la Papua Nuova Guinea, con differenti problemi e sfide”.
Padre Paul spiega a Fides: “In Australia e Nuova Zelanda la fede cristiana è debole,
attaccata dallo stile di vita consumistico e dal secolarismo, come nei paesi occidentali.
C’è bisogno di una ‘nuova evangelizzazione’. Nella mia esperienza al ‘Catholic Enquiry
Center’ di Wellington, nato negli anni ’60, in principio si conducevano inchieste
sui non cristiani, oggi il focus si è spostato sulla popolazione cattolica, dato che
i battesimi diminuiscono, i battezzati non frequentano la Chiesa, i praticanti sono
pochi, i giovani tendono a una spiritualità disgiunta da impegno e responsabilità.”
Urge allora una nuova “missione in casa”, perché “occorre risvegliare una fede vissuta
autenticamente, una maggiore testimonianza pubblica, prendendo esempio dalle altre
denominazioni cristiane. La questione centrale è far calare la fede nella vita delle
persone e nella comunità” nota il direttore delle Pom. “Oggi – continua padre Paul
– ci gioviamo della cosiddetta ‘missione di ritorno’: impariamo e siamo evangelizzati
dagli immigrati, dai fedeli di quelle terre (come India, Filippine, Corea) che un
tempo hanno ricevuto da noi aiuti missionari. E’ una sorta di ‘circolo virtuoso’ della
missione che oggi si verifica in Oceania. I fedeli immigrati portano la forza della
loro fede che risveglia il torpore delle nostre comunità”. Ad esempio, nota padre
Shannahan, “nella diocesi di Auckland, il 10% del clero viene dalle isole del Pacifico,
il 10% dalle Filippine, il 10% dall’India; il 70% è neozelandese, ma fatto di sacerdoti
anziani”. Il calo delle vocazioni impone un ricambio dei sacerdoti che sempre più
spesso giungono dall’estero. In Oceania, allora, le Chiese del ‘primo mondo’ si assicurano
il futuro grazie ai contatti missionari con le Chiese più povere: “Manteniamo le relazioni
ed aiutiamo le Chiese più povere con aiuto finanziario e con la formazione del personale
ecclesiale locale. I vescovi chiedono soprattutto sostegno per l’opera di istruzione
e di sviluppo umano che la Chiesa porta avanti. Oppure ci occupiamo del training e
della specializzazione di sacerdoti e laici. Sappiamo che questo significa anche garantire
il futuro delle stesse nostre comunità. La sfida più grande per noi – conclude – è
rievangelizzare gli adulti e le famiglie. Poi, di conseguenza, cresceranno giovani
e ragazzi entusiasti del Vangelo”. (R.P.)