Padre Samir Khalil Samir: al terrorismo si deve rispondere con la pace
All'indomani delle accuse dirette del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama,
al braccio yemenita di Al Qaeda per il fallito attentato di Natale sul volo Amsterdam-Detroit,
è stata disposta la chiusura dell'ambasciata americana e di quella inglese a Sanaa,
nello Yemen. Secondo quanto dichiarato da John Brennan, consigliere per l'antiterrorismo
del presidente Usa, Al Qaeda avrebbe infatti in progetto un attentato nella capitale
yemenita. Oggi il premier britannico Gordon Brown ha annunciato che Gran Bretagna
e Usa intensificheranno le azioni congiunte per contrastare la minaccia terroristica
in Yemen e in Somalia. Paesi in cui sarebbe stato addestrato il nigeriano responsabile
del fallito attentato al volo della Delta Airlines. Obama, intanto, ha convocato un
vertice sulla sicurezza per martedì prossimo alla Casa Bianca. Sui drammatici effetti
del terrorismo, vettore di odio e violenza, si sofferma al microfono di Luca Collodi,
il padre gesuita Samir Khalil Samir, docente di Storia della cultura araba
e Islamologia all’Università Saint-Joseph di Beirut:
R.
– Mi sembra che ci sia una specie di disperazione da parte dei terroristi: se da una
parte il terrorismo procura in modo cieco tanto male alle persone, dall’altra non
riesce in nessun luogo a convincere la gente, cominciando con i musulmani stessi.
Non riesce a cambiare la struttura del Paese che attacca. In realtà i terroristi uccidono,
alimentano tanta violenza, ma la gente reagisce non in loro favore. Dunque i terroristi
non riescono ad imporre né la sharia, quando lo vogliono fare, né un loro sistema
di violenza che possa cambiare il Paese. Tutto questo avverrà finché non si capirà
ciò che dice il Papa, cioè che la violenza non porta a nulla.
D.
– Padre Samir si parla di Yemen. Secondo lei è realistico pensare ad un attacco americano
contro le basi fondamentaliste islamiche in Yemen?
R.
- Questa azione, se verrà messa in atto, non fermerà i terroristi. La violenza attira
la violenza. Tutto ciò servirebbe a suscitare altri giovani per essere pronti a dar
la vita per ciò che credono sia la via migliore, la verità, etc.
D.
– Molti attentatori sono stati formati spesso in scuole occidentali, spesso anche
americane. Perché poi arrivano a questa scelta così radicale di farsi esplodere su
un aereo per uccidere delle persone e per uccidersi?
R.
- Non si può accusare la scuola occidentale di aver formato questi giovani. I fondamentalisti
sostengono che l’Islam è aggredito da ogni parte, che c’è dell’islamofobia dappertutto.
Si sentono vittime del mondo, cosa che non è realistica. Il secondo punto è che hanno
imparato che, secondo loro, solo la forza porta frutti. Ma è una contro-verità: la
vera lotta contro il terrorismo consiste nel mostrare che la giustizia e il perdono
sono condizioni essenziali di sopravvivenza per l’umanità.
D.
- Cosa deve fare uno Stato quando è sotto attacco, quando subisce delle perdite per
un attacco terrorista islamico?
R. - Penso all’esempio,
già di alcuni decenni fa, dell’Italia con le Brigate Rosse e con il terrorismo. Non
ha usato la violenza, anche se i loro nemici usavano la violenza; ha cercato di distruggere
quel movimento con il diritto e con atti di pace. La strada è lunga ma è l’unica,
perché l’altra strada che sembra più efficace - quella della violenza per rispondere
alla violenza - innesca nuove violenze. Ho letto una pagina straordinaria sull'esperienza
di un dottore di Gaza. Lavora in ospedali israeliani, parla l’ebraico moderno come
un israeliano. Durante l’attacco a Gaza, tre sue figlie e un nipote sono stati uccisi
da una bomba dell’esercito mentre erano a casa. Lui non parla altro che di pace e
di perdono ed è un palestinese musulmano di Gaza. Sono fatti anche questi, straordinari
ma autentici. E’ possibile impegnarsi in questo progetto di pace. Anche nel mondo
islamico troviamo questi esempi di gente che non cerca altro che la pace. Questa linea
è l’unica che può far arrivare ad una soluzione. (Montaggio a cura di Maria
Brigini)