Il rabbino Di Segni: la visita del Papa alla Sinagoga di Roma, tappa fondamentale
del dialogo
Proseguono i preparativi per la visita del Papa nella Sinagoga di Roma, il prossimo
17 gennaio in occasione della Giornata per il dialogo ebraico-cristiano. Si tratta
della terza Sinagoga visitata da Benedetto XVI dopo quelle di Colonia, nel 2005, e
di Park East a New York, nel 2008. Già subito dopo l’elezione al Soglio pontificio,
Benedetto XVI aveva manifestato con un messaggio al rabbino capo di Roma Riccardo
Di Segni la sua volontà di confidare “nell’aiuto dell’Altissimo per continuare
il dialogo e rafforzare la collaborazione con i figli e le figlie del popolo ebraico”.
L'evento si svolgerà a quasi 24 anni dalla storica visita di Giovanni Paolo II nella
Sinagoga di Roma, avvenuta il 13 aprile 1986. Ma con quale spirito la comunità ebraica
della capitale vive questo appuntamento? Fabio Colagrande lo ha chiesto allo
stesso rabbino Di Segni:
R. – Con
la consapevolezza che si tratti di un avvenimento importante, di una tappa fondamentale
nel dialogo, e con una grande attesa per tutto ciò che questo potrà significare in
termini di prospettive del clima generale. D. – Cosa ha rappresentato
per i rapporti tra ebrei e cattolici la visita di Giovanni Paolo II del 13 aprile
del 1986? R. – Essenzialmente la caduta di un muro di diffidenza:
ne abbiamo avuto proprio la sensazione palpabile nel corso degli anni. D.
– In qualche modo quindi leggete questa visita in continuità con quella? R.
– Sì, è un gesto di continuità, prima di tutto. D. – Il Papa
sarà in visita alla Sinagoga romana, in occasione della ricorrenza del Mo'ed
di piombo. Che significato dà a questa coincidenza? R.
– Bisognerebbe spiegare che ricorrenza è: ci fu un assalto al ghetto nel 1793 da parte
della plebaglia, chiamiamola così, che vedeva nella comunità ebraica la sostenitrice
dei diritti promossi dalla Rivoluzione francese. Chiaramente la comunità ebraica non
ne poteva più di stare chiusa nel ghetto sotto una politica restrittiva delle libertà
e quindi simpatizzava per la Rivoluzione. Ci fu un assalto al ghetto. Si chiama di
piombo, perché il cielo si colorò di un colorito plumbeo e cominciò un acquazzone
che spense l’incendio che era stato appiccato alla Sinagoga e anche gli entusiasmi
degli assalitori. Che significato ha? Chiaramente stiamo in una fase storica completamente
differente, in cui è finito il ghetto con le repressioni della libertà e oggi dobbiamo
guardare al rapporto tra ebraismo e cristianità in maniera completamente differente.
D. – La visita del prossimo 17 gennaio avverrà ad un anno di
distanza dalla scelta dei rabbini italiani di non partecipare alla Giornata del dialogo
ebraico-cristiano per la questione della preghiera del Venerdì Santo. Quella vicenda,
rabbino Di Segni, è ormai chiusa? R. – Diciamo che la vicenda
è chiusa dal punto di vista diplomatico. Esiste ancora una preghiera che si chiama
“De conversione iudeorum”. Quindi, era necessario avere dei chiarimenti, soprattutto
a livello locale. Da quando il cardinale Bagnasco, nella sua qualità di presidente
della Conferenza episcopale italiana, ha dichiarato esplicitamente che la Chiesa cattolica
non ha intenzioni “conversionistiche” nei confronti degli ebrei, noi possiamo affrontare
serenamente il dialogo, perché l’intenzione “conversionistica” è francamente un muro
che impedisce la comunicazione. A questo punto andiamo avanti, sperando che sul campo
si realizzi quello che desideriamo per il bene di tutti quanti. D.
– A proposito di chiarimenti, rabbino Di Segni, pochi giorni fa lei ha manifestato
il suo apprezzamento per le parole di padre Lombardi, direttore della Sala Stampa
della Santa Sede, dopo la pubblicazione del Decreto sulle virtù eroiche di Pio XII.
Che importanza ha avuto questo chiarimento? R. – Il chiarimento
di padre Lombardi, che penso sia importante e come tale debba essere riconosciuto
e non minimizzato, ha avuto un senso nel cambiare un clima, nel senso che ha dato
un segno della sensibilità vaticana alla reazione ebraica a questo Decreto. D.
– Quindi momenti di divergenze, di contrasto, nonostante i quali il dialogo può e
deve continuare. Lei la pensa così? R. – Sì, assolutamente,
perché se noi ci fermiamo alle cose che ci dividono profondamente non andiamo da nessuna
parte. Dovremmo pensare piuttosto alle cose che ci uniscono, lasciando le controversie
ai tavoli di discussione, che non devono mancare, ma che devono essere fatte al tempo
giusto e con la serenità dovuta. D’altra parte il dialogo significa anche discussione.
La discussione è necessaria. Se ci sono due persone che la pensano allo stesso modo,
uno dei due è inutile. Quindi, le divergenze sono importanti per andare avanti. Al
di là di questo, però, bisogna lanciare dei messaggi di fratellanza, di impegno per
tutti quanti. Il mondo ci sta guardando appunto per vedere se riusciamo a realizzare
queste cose. E questa è la sfida, chiamiamola così, che si pone di fronte a noi, nella
prospettiva di questa visita.