Anno Sacerdotale: la testimonianza di un sacerdote salesiano
Educatore fra i giovani: vive così il suo sacerdozio don Riccardo Tonelli,
salesiano, e docente di pastorale giovanile alla Pontificia Università Salesiana di
Roma. Una scelta, la sua, maturata tra i figli spirituali di Don Bosco che gli hanno
fatto sperimentare la gioia di donare la propria vita nel servizio per gli altri.
Al microfono di Tiziana Campisi, don Tonelli racconta - per la nostra rubrica
domenicale sull'Anno Sacerdotale - com’è nata la sua vocazione:
R. – La mia
vocazione sacerdotale è fondamentalmente una vocazione salesiana. Studiando in un
istituto salesiano, a Bologna, ho incontrato dei sacerdoti che mi erano molto simpatici,
ho apprezzato il loro modo di essere, di agire, di stare con gli altri e ho deciso
di accogliere il dono che il Signore mi ha fatto misteriosamente di diventare anch’io
uno come loro. D. – In che modo il sacerdozio l’ha arricchita? R.
– L’essere sacerdote mi ha permesso di realizzare il mio servizio ai giovani in un
certo modo e con una certa qualità, cioè mi sono reso conto che l’esperienza che quotidianamente
dovrei fare di incontro personale con il Signore, per esempio, nella celebrazione
dell’Eucaristia, qualifica il mio rapporto con i giovani. Mi sono reso conto che i
giovani che ho incontrato erano contenti di incontrarmi, non perché sapevo fare delle
cose che loro non sapevano fare, ma perché in qualche modo potevo aiutarli ad incontrare
una ragione di senso e di speranza. E allora ho ripensato la qualità del mio essere
sacerdote proprio sulla misura di questa urgenza, di questo servizio e, in questo
senso, io credo di poter dire che mi ha molto arricchito, perché mi ha qualificato
come salesiano e come educatore. D. – Che cosa significa essere
sacerdote oggi? R. – Aiutare le persone a scoprire che il Dio
di Gesù di cui noi vogliamo essere testimoni, noi sacerdoti, in un modo particolare,
è il Dio che ci regala la vita e la speranza e ce la regala anche quando tutto sembra
difficilmente sperimentabile, perché si vive personalmente o collettivamente dentro
la tristezza. Il poter celebrare l’Eucaristia dicendo “Se Gesù è risorto, dopo che
i suoi nemici l’avevano ucciso, anche noi possiamo essere persone di speranza”. Questo
in fondo è offrire una qualità di servizio laddove le parole che possiamo costruire
noi, con un tentativo di essere sapienti, non dicono più nulla. D.
– Lei è felice? R. – Sì, lo dico con decisione. Se uno ci pensa,
magari fa fatica a dire “sì”, ma se uno guarda in avanti, allora può dire a se stesso
“sono felice” e può dirlo agli altri “sono felice, perché solo così, condividendo
un’esperienza di felicità, possiamo davvero volerci bene”.