Gli auguri del Papa alla Curia Romana. Testo integrale
Imparare nuovamente la capacità di riconoscere la colpa e fare il primo passo verso
l’altro per costruire la pace: è questo l’auspicio del Papa nel tradizionale incontro
di fine anno con la Curia Romana per gli auguri natalizi svoltosi questa mattina nella
Sala Clementina in Vaticano. Benedetto XVI ha ripercorso alcuni importanti eventi
ecclesiali dell’Anno: i suoi viaggi in Africa, in Terra Santa e nella Repubblica Ceca,
il Sinodo per l’Africa, l’indizione dell’Anno Sacerdotale. Ecco il testo integrale
del discorso del Papa:
Signori Cardinali, Venerati Fratelli
nell’Episcopato e nel Presbiterato, Cari Fratelli e Sorelle, la
Solennità del Santo Natale, come è stato appena sottolineato dal Cardinale Decano
Angelo Sodano, è, per i cristiani, un’occasione del tutto particolare di incontro
e di comunione. Quel Bambino che adoriamo a Betlemme ci invita a sentire l’amore immenso
di Dio, quel Dio che è disceso dal cielo e si è fatto vicino a ciascuno di noi per
renderci suoi figli, parte della sua stessa Famiglia. Anche questo tradizionale appuntamento
natalizio del Successore di Pietro con i suoi più stretti collaboratori, è un incontro
di famiglia, che rinsalda i vincoli di affetto e di comunione, per formare sempre
più quel “Cenacolo permanente” consacrato alla diffusione del Regno di Dio, appena
ricordato. Ringrazio il Cardinale Decano per le cordiali parole con cui si è fatto
interprete dei sentimenti augurali del Collegio cardinalizio, dei Membri della Curia
Romana e del Governatorato, come pure di tutti i Rappresentanti Pontifici che sono
profondamente uniti a noi nel portare agli uomini del nostro tempo quella luce che
è nata nella mangiatoia di Betlemme. Nell’accogliervi con grande gioia, desidero anche
esprimere la mia gratitudine a tutti per il generoso e competente servizio che prestate
al Vicario di Cristo e alla Chiesa. Un altro anno
ricco di avvenimenti importanti per la Chiesa e per il mondo volge al termine. Con
uno sguardo retrospettivo pieno di gratitudine vorrei in quest’ora richiamare l’attenzione
solo su alcuni punti-chiave per la vita ecclesiale. Dall’Anno Paolino si è passati
all’Anno Sacerdotale. Dalla figura imponente dell’Apostolo delle Genti che, colpito
dalla luce del Cristo risorto e dalla sua chiamata, ha portato il Vangelo ai popoli
del mondo, siamo passati alla figura umile del Curato d’Ars, che per tutta la sua
vita è rimasto nel piccolo paese che gli era stato affidato e che, tuttavia, proprio
nell’umiltà del suo servizio ha reso ampiamente visibile nel mondo la bontà riconciliatrice
di Dio. A partire da ambedue le figure si manifesta l’ampia portata del ministero
sacerdotale e diventa evidente come è grande proprio ciò che è piccolo e come, attraverso
il servizio apparentemente piccolo di un uomo, Dio possa operare cose grandi, purificare
e rinnovare il mondo dal di dentro. Per la Chiesa e per me
personalmente, l’anno che si sta chiudendo è stato in gran parte nel segno dell’Africa.
C’era innanzitutto il viaggio in Camerun ed Angola. Era commovente per me sperimentare
la grande cordialità con cui il Successore di Pietro, il Vicarius Christi, veniva
accolto. La gioia festosa e l’affetto cordiale, che mi venivano incontro su tutte
le strade, non riguardavano, appunto, semplicemente un qualsiasi ospite casuale. Nell’incontro
col Papa si rendeva sperimentabile la Chiesa universale, la comunità che abbraccia
il mondo e che viene radunata da Dio mediante Cristo – la comunità che non è fondata
su interessi umani, ma che ci è offerta dall’attenzione amorevole di Dio per noi.
Tutti insieme siamo famiglia di Dio, fratelli e sorelle in virtù di un unico Padre:
questa è stata l’esperienza vissuta. E si sperimentava che l’attenzione amorevole
di Dio in Cristo per noi non è una cosa del passato e neppure cosa di teorie erudite,
ma una realtà del tutto concreta qui ed ora. Proprio Lui è in mezzo a noi: questo
abbiamo percepito attraverso il ministero del Successore di Pietro. Così eravamo elevati
al di sopra della semplice quotidianità. Il cielo era aperto, e questo è ciò che fa
di un giorno una festa. Ed è al contempo qualcosa di duraturo. Continua ad essere
vero, anche nella vita quotidiana, che il cielo non è più chiuso; che Dio è vicino;
che in Cristo tutti ci apparteniamo a vicenda. In modo particolarmente
profondo si è impresso nella mia memoria il ricordo delle Celebrazioni liturgiche.
Le Celebrazioni della Santa Eucaristia erano vere feste della fede. Vorrei menzionare
due elementi che mi sembrano particolarmente importanti. C’era innanzitutto una grande
gioia condivisa, che si esprimeva anche mediante il corpo, ma in maniera disciplinata
ed orientata dalla presenza del Dio vivente. Con ciò è già indicato il secondo elemento:
il senso della sacralità, del mistero presente del Dio vivente plasmava, per così
dire, ogni singolo gesto. Il Signore è presente – il Creatore, Colui al quale tutto
appartiene, dal quale noi proveniamo e verso il quale siamo in cammino. In modo spontaneo
mi venivano in mente le parole di san Cipriano, che nel suo commento al Padre Nostro
scrive: “Ricordiamoci di essere sotto lo sguardo di Dio rivolto su di noi. Dobbiamo
piacere agli occhi di Dio, sia con l’atteggiamento del nostro corpo che con l’uso
della nostra voce” (De dom. or. 4 CSEL III 1 p 269). Sì, questa consapevolezza c’era:
noi stiamo al cospetto di Dio. Da questo non deriva paura o inibizione, neppure un’obbedienza
esteriore alle rubriche e ancor meno un mettersi in mostra gli uni davanti agli altri
o un gridare in modo indisciplinato. C’era piuttosto ciò che i Padri chiamavano “sobria
ebrietas”: l’essere ricolmi di una gioia che comunque rimane sobria ed ordinata, che
unisce le persone a partire dall’interno, conducendole nella lode comunitaria di Dio,
una lode che al tempo stesso suscita l’amore del prossimo, la responsabilità vicendevole. Naturalmente
faceva parte del viaggio in Africa soprattutto l’incontro con i Fratelli nel ministero
episcopale e l’inaugurazione del Sinodo dell’Africa mediante la consegna dell’Instrumentum
laboris. Ciò avvenne nel contesto di un colloquio serale nella festa di san Giuseppe,
un colloquio in cui i rappresentanti dei singoli episcopati esposero in maniera toccante
le loro speranze e preoccupazioni. Io penso che il buon padrone di casa, san Giuseppe,
che personalmente conosce bene che cosa significhi il ponderare, in atteggiamento
di sollecitudine e di speranza, le vie future della famiglia, ci abbia ascoltato con
amore e ci abbia accompagnato fin dentro il Sinodo stesso. Gettiamo solo un breve
sguardo sul Sinodo. In occasione della mia visita in Africa si è resa evidente innanzitutto
la forza teologica e pastorale del Primato Pontificio come punto di convergenza per
l’unità della Famiglia di Dio. Lì, nel Sinodo, è emersa ancora più fortemente l’importanza
della collegialità – dell’unità dei Vescovi, che ricevono il loro ministero proprio
per il fatto che entrano nella comunità dei Successori degli Apostoli: ognuno è Vescovo,
Successore degli Apostoli, solo in quanto partecipe della comunità di coloro nei quali
continua il Collegium Apostolorum nell’unità con Pietro e col suo Successore. Come
nelle liturgie in Africa e poi, di nuovo, in San Pietro a Roma, il rinnovamento liturgico
del Vaticano II ha preso forma in modo esemplare, così nella comunione del Sinodo
si è vissuto in modo molto pratico l’ecclesiologia del Concilio. Commoventi erano
anche le testimonianze che potevamo sentire dai fedeli provenienti dall’Africa – testimonianze
di sofferenza e di riconciliazione concrete nelle tragedie della storia recente del
Continente. Il Sinodo si era proposto il tema: La Chiesa in
Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. È questo un
tema teologico e soprattutto pastorale di un’attualità scottante, ma poteva essere
anche frainteso come un tema politico. Compito dei Vescovi era di trasformare la teologia
in pastorale, cioè in un ministero pastorale molto concreto, in cui le grandi visioni
della Sacra Scrittura e della Tradizione vengono applicate all’operare dei Vescovi
e dei sacerdoti in un tempo e in un luogo determinati. Ma in questo non si doveva
cedere alla tentazione di prendere personalmente in mano la politica e da pastori
trasformarsi in guide politiche. In effetti, la questione molto concreta davanti alla
quale i pastori si trovano continuamente è, appunto, questa: come possiamo essere
realisti e pratici, senza arrogarci una competenza politica che non ci spetta? Potremmo
anche dire: si trattava del problema di una laicità positiva, praticata ed interpretata
in modo giusto. È questo anche un tema fondamentale dell’Enciclica, pubblicata nel
giorno dei Santi Pietro e Paolo, “Caritas in veritate”, che ha in tal modo ripreso
ed ulteriormente sviluppato la questione circa la collocazione teologica e concreta
della dottrina sociale della Chiesa. Sono riusciti i Padri Sinodali
a trovare la strada piuttosto stretta tra una semplice teoria teologica ed un’immediata
azione politica, la strada del “pastore”? Nel mio breve discorso a conclusione del
Sinodo ho risposto affermativamente, in modo consapevole ed esplicito, a questa domanda.
Naturalmente, nell’elaborazione del documento postsinodale, dovremo fare attenzione
a mantenere tale equilibrio ed offrire così quel contributo per la Chiesa e la società
in Africa che è stato affidato alla Chiesa in virtù della sua missione. Vorrei cercare
di spiegare questo brevemente a proposito di un singolo punto. Come già detto, il
tema del Sinodo designa tre grandi parole fondamentali della responsabilità teologica
e sociale: riconciliazione – giustizia – pace. Si potrebbe dire che riconciliazione
e giustizia siano i due presupposti essenziali della pace e che quindi definiscano
in una certa misura anche la sua natura. Limitiamoci alla parola “riconciliazione”.
Uno sguardo sulle sofferenze e pene della storia recente dell’Africa, ma anche in
molte altre parti della terra, mostra che contrasti non risolti e profondamente radicati
possono portare, in certe situazioni, ad esplosioni di violenza in cui ogni senso
di umanità sembra smarrito. La pace può realizzarsi soltanto se si giunge ad una riconciliazione
interiore. Possiamo considerare come esempio positivo di un processo di riconciliazione
in via di riuscita la storia dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale. Il fatto
che dal 1945 nell’Europa occidentale e centrale non ci siano più state guerre si fonda
sicuramente in misura determinante su strutture politiche ed economiche intelligenti
ed eticamente orientate, ma queste potevano svilupparsi solo perché esistevano processi
interiori di riconciliazione, che hanno reso possibile una nuova convivenza. Ogni
società ha bisogno di riconciliazioni, perché possa esserci la pace. Riconciliazioni
sono necessarie per una buona politica, ma non possono essere realizzate unicamente
da essa. Sono processi pre-politici e devono scaturire da altre fonti. Il
Sinodo ha cercato di esaminare profondamente il concetto di riconciliazione come compito
per la Chiesa di oggi, richiamando l’attenzione sulle sue diverse dimensioni. La chiamata
che san Paolo ha rivolto ai Corinzi possiede proprio oggi una nuova attualità. “In
nome di Cristo siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo
in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio!” (2 Cor 5, 20). Se l’uomo non
è riconciliato con Dio, è in discordia anche con la creazione. Non è riconciliato
con se stesso, vorrebbe essere un altro da quel che è ed è pertanto non riconciliato
neppure con il prossimo. Fa inoltre parte della riconciliazione la capacità di riconoscere
la colpa e di chiedere perdono – a Dio e all’altro. E infine appartiene al processo
della riconciliazione la disponibilità alla penitenza, la disponibilità a soffrire
fino in fondo per una colpa e a lasciarsi trasformare. E ne fa parte la gratuità,
di cui l’Enciclica “Caritas in veritate” parla ripetutamente: la disponibilità ad
andare oltre il necessario, a non fare conti, ma ad andare al di là di ciò che richiedono
le semplici condizioni giuridiche. Ne fa parte quella generosità di cui Dio stesso
ci ha dato l’esempio. Pensiamo alla parola di Gesù: “Se tu presenti la tua offerta
all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì
il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi
torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5, 23s.). Dio che sapeva che non siamo riconciliati,
che vedeva che abbiamo qualcosa contro di Lui, si è alzato e ci è venuto incontro,
benché Egli solo fosse dalla parte della ragione. Ci è venuto incontro fino alla Croce,
per riconciliarci. Questa è gratuità: la disponibilità a fare il primo passo. Per
primi andare incontro all’altro, offrirgli la riconciliazione, assumersi la sofferenza
che comporta la rinuncia al proprio aver ragione. Non cedere nella volontà di riconciliazione:
di questo Dio ci ha dato l’esempio, ed è questo il modo per diventare simili a Lui,
un atteggiamento di cui sempre di nuovo abbiamo bisogno nel mondo. Dobbiamo oggi apprendere
nuovamente la capacità di riconoscere la colpa, dobbiamo scuoterci di dosso l’illusione
di essere innocenti. Dobbiamo apprendere la capacità di far penitenza, di lasciarci
trasformare; di andare incontro all’altro e di farci donare da Dio il coraggio e la
forza per un tale rinnovamento. In questo nostro mondo di oggi dobbiamo riscoprire
il Sacramento della penitenza e della riconciliazione. Il fatto che esso in gran parte
sia scomparso dalle abitudini esistenziali dei cristiani è un sintomo di una perdita
di veracità nei confronti di noi stessi e di Dio; una perdita, che mette in pericolo
la nostra umanità e diminuisce la nostra capacità di pace. San Bonaventura era dell’opinione
che il Sacramento della penitenza fosse un Sacramento dell’umanità in quanto tale,
un Sacramento che Dio aveva istituito nella sua essenza già immediatamente dopo il
peccato originale con la penitenza imposta ad Adamo, anche se ha potuto ottenere la
sua forma completa solo in Cristo, che è personalmente la forza riconciliatrice di
Dio e ha preso su di sé la nostra penitenza. In effetti, l’unità di colpa, penitenza
e perdono è una delle condizioni fondamentali della vera umanità, condizioni che nel
Sacramento ottengono la loro forma completa, ma che, a partire dalle loro radici,
fanno parte dell’essere persone umane come tale. Il Sinodo dei Vescovi per l’Africa
ha pertanto a ragione incluso nelle sue riflessioni anche rituali di riconciliazione
della tradizione africana come luoghi di apprendimento e di preparazione per la grande
riconciliazione che Dio dona nel Sacramento della penitenza. Questa riconciliazione,
però, richiede l’ampio “atrio” del riconoscimento della colpa e dell’umiltà della
penitenza. Riconciliazione è un concetto pre-politico e una realtà pre-politica, che
proprio per questo è della massima importanza per il compito della stessa politica.
Se non si crea nei cuori la forza della riconciliazione, manca all’impegno politico
per la pace il presupposto interiore. Nel Sinodo i Pastori della Chiesa si sono impegnati
per quella purificazione interiore dell’uomo che costituisce l’essenziale condizione
preliminare per l’edificazione della giustizia e della pace. Ma tale purificazione
e maturazione interiore verso una vera umanità non possono esistere senza Dio. Riconciliazione
– con questa parola-chiave mi torna alla mente il secondo grande viaggio dell’anno
che si chiude: il pellegrinaggio in Giordania ed in Terra Santa. Al riguardo vorrei
innanzitutto ringraziare cordialmente il Re di Giordania per la grande ospitalità
con cui mi ha accolto ed accompagnato lungo tutto lo svolgimento del mio pellegrinaggio.
La mia gratitudine riguarda in modo particolare anche la maniera esemplare con cui
egli si impegna per la convivenza pacifica tra cristiani e musulmani, per il rispetto
nei confronti della religione dell’altro e per la collaborazione nella comune responsabilità
davanti a Dio. Ringrazio di cuore anche il governo d’Israele per tutto ciò che ha
fatto affinché la visita potesse svolgersi pacificamente ed in sicurezza. Sono particolarmente
grato per la possibilità concessami di celebrare due grandi liturgie pubbliche – a
Gerusalemme e a Nazaret – in cui i cristiani hanno potuto presentarsi pubblicamente
come comunità di fede in Terra Santa. Infine, il mio ringraziamento si rivolge all’Autorità
palestinese che mi ha accolto, anch’essa, con grande cordialità; essa pure mi ha reso
possibile una Celebrazione liturgica pubblica a Betlemme, e mi ha fatto conoscere
le sofferenze come anche le speranze del suo Territorio. Tutto ciò che si può vedere
in quei Paesi, invoca riconciliazione, giustizia, pace. La visita a Yad Vashem ha
significato un incontro sconvolgente con la crudeltà della colpa umana, con l’odio
di un’ideologia accecata che, senza alcuna giustificazione, ha consegnato milioni
di persone umane alla morte e che con ciò, in ultima analisi, ha voluto cacciare dal
mondo anche Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e il Dio di Gesù Cristo.
Così questo è in primo luogo un monumento commemorativo contro l’odio, un richiamo
accorato alla purificazione e al perdono, all’amore. Proprio questo monumento alla
colpa umana ha reso poi tanto più importante la visita ai luoghi della memoria della
fede e ha fatto percepire la loro inalterata attualità. In Giordania abbiamo visto
il punto più basso della terra presso il fiume Giordano. Come si potrebbe non sentirsi
richiamati alla parola della Lettera agli Efesini, secondo cui Cristo è “disceso nelle
regioni più basse della terra” (Eph 4, 9). In Cristo Dio è disceso fin nell’ultima
profondità dell’essere umano, fin nella notte dell’odio e dell’accecamento, fin nel
buio della lontananza dell’uomo da Dio, per accendere lì la luce del suo amore. Egli
è presente perfino nella notte più profonda: anche negli inferi, eccoti – questa parola
del Salmo 139 [138], 8 è diventata realtà nella discesa di Gesù. Così l’incontro con
i luoghi della salvezza nella chiesa dell’annunciazione a Nazaret, nella grotta della
natività a Betlemme, nel luogo della crocifissione sul Calvario, davanti al sepolcro
vuoto, testimonianza della risurrezione, è stato come un toccare la storia di Dio
con noi. La fede non è un mito. È storia reale, le cui tracce possiamo toccare con
mano. Questo realismo della fede ci fa particolarmente bene nei travagli del presente.
Dio si è veramente mostrato. In Gesù Cristo Egli si è veramente fatto carne. Come
Risorto Egli rimane vero Uomo, apre continuamente la nostra umanità a Dio ed è sempre
il garante del fatto che Dio è un Dio vicino. Sì, Dio vive e sta in relazione con
noi. In tutta la sua grandezza è tuttavia il Dio vicino, il Dio-con-noi, che continuamente
ci chiama: Lasciatevi riconciliare con me e tra voi! Egli sempre pone nella nostra
vita personale e comunitaria il compito della riconciliazione. Infine
vorrei ancora dire una parola di gratitudine e di gioia per il mio viaggio nella Repubblica
Ceca. Prima di tale viaggio sono sempre stato avvertito che quello è un Paese con
una maggioranza di agnostici e di atei, in cui i cristiani costituiscono ormai soltanto
una minoranza. Tanto più gioiosa è stata la sorpresa nel costatare che dappertutto
ero circondato da grande cordialità ed amicizia; che grandi liturgie venivano celebrate
in un’atmosfera gioiosa di fede; che nell’ambito delle università e della cultura
la mia parola trovava una viva attenzione; che le Autorità dello Stato mi hanno riservato
una grande cortesia e hanno fatto tutto il possibile per contribuire al successo della
visita. Sarei ora tentato di dire qualcosa sulla bellezza del Paese e sulle magnifiche
testimonianze della cultura cristiana, le quali soltanto rendono tale bellezza perfetta.
Ma considero importante soprattutto il fatto che anche le persone che si ritengono
agnostiche o atee, devono stare a cuore a noi come credenti. Quando parliamo di una
nuova evangelizzazione, queste persone forse si spaventano. Non vogliono vedere se
stesse come oggetto di missione, né rinunciare alla loro libertà di pensiero e di
volontà. Ma la questione circa Dio rimane tuttavia presente pure per loro, anche se
non possono credere al carattere concreto della sua attenzione per noi. A Parigi ho
parlato della ricerca di Dio come del motivo fondamentale dal quale è nato il monachesimo
occidentale e, con esso, la cultura occidentale. Come primo passo dell’evangelizzazione
dobbiamo cercare di tenere desta tale ricerca; dobbiamo preoccuparci che l’uomo non
accantoni la questione su Dio come questione essenziale della sua esistenza. Preoccuparci
perché egli accetti tale questione e la nostalgia che in essa si nasconde. Mi viene
qui in mente la parola che Gesù cita dal profeta Isaia, che cioè il tempio dovrebbe
essere una casa di preghiera per tutti i popoli (cfr Is 56, 7; Mc 11, 17). Egli pensava
al cosiddetto cortile dei gentili, che sgomberò da affari esteriori perché ci fosse
lo spazio libero per i gentili che lì volevano pregare l’unico Dio, anche se non potevano
prendere parte al mistero, al cui servizio era riservato l’interno del tempio. Spazio
di preghiera per tutti i popoli – si pensava con ciò a persone che conoscono Dio,
per così dire, soltanto da lontano; che sono scontente con i loro dèi, riti, miti;
che desiderano il Puro e il Grande, anche se Dio rimane per loro il “Dio ignoto” (cfr
At 17, 23). Essi dovevano poter pregare il Dio ignoto e così tuttavia essere in relazione
con il Dio vero, anche se in mezzo ad oscurità di vario genere. Io penso che la Chiesa
dovrebbe anche oggi aprire una sorta di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano
in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato
l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo
con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali
la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non
vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto. Alla
fine, ancora una volta, una parola circa l’Anno Sacerdotale. Come sacerdoti siamo
a disposizione di tutti: per coloro che conoscono Dio da vicino e per coloro per i
quali Egli è lo Sconosciuto. Noi tutti dobbiamo conoscerlo sempre di nuovo e dobbiamo
cercarlo continuamente per diventare veri amici di Dio. Come potremmo, in definitiva,
arrivare a conoscere Dio, se non attraverso uomini che sono amici di Dio? Il nucleo
più profondo del nostro ministero sacerdotale è quello di essere amici di Cristo (cfr
Gv 15, 15), amici di Dio, per il cui tramite anche altre persone possano trovare la
vicinanza a Dio. Così, insieme con il mio profondo ringraziamento per tutto l’aiuto
resomi lungo l’intero anno, ecco il mio augurio per il Natale: che noi diventiamo
sempre più amici di Cristo e quindi amici di Dio e che in questo modo possiamo essere
sale della terra e luce del mondo. Un santo Natale e un buon Anno Nuovo!
Questo
il saluto rivolto a Benedetto XVI da parte del Card. Angelo Sodano, Decano
del Collegio Cardinalizio:
Beatissimo Padre,
Il Natale è vicino
e fra poco faremo nostro il canto degli Angeli sulla grotta di Betlemme: “Gloria a
Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Intanto,
in questi giorni d’attesa, cercheremo di accogliere l’invito della Liturgia, che ci
chiama ad essere “vigilanti nella preghiera ed esultanti nella lode” (Prefazio II
d’Avvento). E’ poi noto che le Feste Natalizie costituiscono, per le nostre famiglie
cristiane, una bella occasione per ritrovarsi insieme e per rinsaldare i loro vincoli
di reciproco amore. In tale circostanza, anche la Famiglia Pontificia vuole stringersi
intorno a Lei, Padre Santo, per rinnovarLe i sentimenti di profonda comunione ecclesiale
ed augurarLe liete e sante Feste Natalizie. Sono i voti che, in primo luogo, Le
pervengono dai 185 Membri del Collegio Cardinalizio, sia di quelli sparsi per il mondo,
sia di quelli residenti nell’Urbe. Alcuni di noi sono già avanti negli anni, sperando
però che l’Onnipotente ci conceda ciò che aveva promesso ai pii Israeliti, stando
alle note parole del Salmo: “Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno vegeti
e rigogliosi” (Sal 92,15). In secondo luogo, mi è caro presentare a Vostra Santità
gli auguri di tutta la Curia Romana, che intende formare con il Successore di Pietro
un “Cenacolo permanente”, totalmente consacrato alla diffusione del Regno di Dio,
per usare una frase cara al Servo di Dio Papa Paolo VI (Insegnamenti di Paolo VI,
1973, 257). Ai voti dei presenti si uniscono pure quelli dei Nunzi Apostolici,
che rappresentano Vostra Santità presso le Chiese particolari ed i Governi civili
dei Vari Paesi ove essi sono stati destinati. A tali auguri si uniscono pure i Nunzi
Apostolici emeriti, sempre vicini alle sollecitudini pastorali del Successore di Pietro. Infine,
sono lieto di presentare a Vostra santità anche i voti dei responsabili del Governatorato
dello Stato della Città del Vaticano, impegnati a coadiuvarLa nel delicato settore
della vita dello Stato, vero strumento di libertà per la Sede Apostolica e valido
punto di sostegno per la sua missione internazionale.
Beatissimo Padre, raccogliendo
in un'unica “corbeille” tutti questi voti, sono molto lieto di presentarGlieli, a
nome di tutti i Suoi Collaboratori. Da parte nostra, cercheremo di seguire l’invito
che San Pietro rivolgeva alle prime comunità cristiane: “Ciascuno secondo il dono
ricevuto, lo metta a servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme
grazia di Dio” (cf 1 Pt, 4,10). Con questi sentimenti noi intendiamo collaborare
con Vostra Santità, per la diffusione del Regno di Dio nel mondo d’oggi. Su questi
nostri propositi imploriamo, Padre Santo, la Sua Apostolica Benedizione.