Conferenza di Copenaghen sul clima, si lavora per definire gli accordi
Prosegue a Copenhagen il vertice Onu sul clima, giunto al suo terzo giorno. Messi
da parte gli entusiasmi iniziali, i delegati dei 192 Paesi presenti sono al lavoro
per mettere in piedi una piattaforma di accordo che al termine dell’evento i leader
mondiali dovrebbero firmare. E intanto è stato comunicato che sarà l’Africa del Sud
ad ospitare nel 2011 il prossimo summit dedicato ai cambiamenti climatici. Il servizio
è di Salvatore Sabatino:
Non c’è ottimismo
al "Bella Center" di Copenhagen, ma non c’è neppure sfiducia. I 192 Paesi presenti
sanno che il percorso è ancora lungo, ma sanno anche che bisogna creare almeno una
piattaforma sulla quale costruire un accordo. Anche perché - come ha detto ieri il
segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon - “non c’è tempo da perdere”. L'attenzione
di tutti è puntata ora sui “grandi inquinatori”, Usa e Cina che, come sottolineato
dal presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso, “non sono ancora pronti”.
Pechino, da parte sua, dopo le iniziali aperture, ha chiesto ai “Paesi sviluppati”
di andare avanti dando l'esempio e “dimostrare la loro volontà politica” con “impegni
concreti e trasferimenti di tecnologia'' ai Paesi più poveri, seguendo i principi
stabiliti dal protocollo di Kyoto e dalla riunione di Bali”. Intanto, dal G77 dei
Paesi in via di sviluppo giunge la proposta di un testo alternativo, preparato dalla
Danimarca, che riprende l'obiettivo di limitare l'aumento del riscaldamento globale
a 2 gradi, punta ad una riduzione del 50% delle emissioni mondiali entro il 2050 rispetto
al 1990 o del 58% rispetto al livello del 2005, e impegna i Paesi ricchi a ridurre
dell'80% le loro emissioni. Contrapposizioni, quelle di Copenhagen, che accendono
gli animi degli attivisti impegnati nella causa ambientalista. A Roma, questa mattina,
otto manifestanti di Greenpeace sono saliti sul Colosseo, aprendo uno striscione di
300 metri quadrati, su cui campeggia la scritta: Copenhagen, accordo storico adesso.
Ma quanto costa ad un Paese attuare una politica di rispetto ambientale? Ugo
Bertone, direttore di Finanza e Mercati: R. - Può costare moltissimo.
Di sicuro, andiamo a valutare la manovra in miliardi di dollari per ciascun Paese,
soprattutto se parliamo di economie delle dimensioni di India, Cina o Brasile. In
un caso come questo, però, sarebbe forse meglio parlare di costi globali, perché la
questione del clima non si ferma di fronte alle frontiere e ai confini di nessuno.
Questa, direi, deve essere la lezione principale in arrivo da un grande summit internazionale
come quello di Copenaghen. Questo è davvero un problema che non conosce passaporto. D.
- Si è parlato proprio in questi giorni e nei giorni precedenti a Copenaghen di aiuti
concreti di almeno 30 miliardi di dollari per i Paesi in via di sviluppo per i prossimi
tre anni, mentre altri parlano di 50 miliardi di dollari. Qual è la cifra giusta? R.
- Più che di cifre, in questi casi occorre parlare di una certa volontà, di una certa
efficacia nello spendere. In realtà, questa Conferenza deve soprattutto superare il
problema delle delusioni legate alla precedente di Kyoto: anche allora si fecero degli
annunci estremamente roboanti, si parlò di grandi cifre e poi alla resa dei conti
avvenne veramente poco. Si parla di cifre che sono legate a vari meccanismi: ci sono
aiuti diretti, ci sono degli sgravi fiscali, ci sono degli incentivi, ci sono delle
formule legate sullo scambio. Noi parliamo di aiuti, intorno ai 30 miliardi di dollari,
da parte del fronte europeo. Ma la cosa più importante è che si inneschi un circuito
virtuoso per cui, accanto all’aiuto diretto dei governi, ci sia un forte stimolo,
un forte incentivo perché tutte le economie si convincano che produrre "verde" ed
essere meno inquinanti conviene. Diciamo che a quel punto i 30 miliardi potrebbero
avviare un circuito virtuoso per centinaia di miliardi. E questo è l’importante.