2009-11-23 15:09:04

Convegno a Roma sulle pene alternative al carcere


Negli ultimi anni l’istituzione carceraria è diventata in Italia il mezzo sostitutivo delle carenti risposte sociali: è quanto è stato sottolineato durante il 42.mo Convegno nazionale promosso dal Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario (Seac). Durante l’incontro, conclusosi sabato scorso a Roma ed incentrato sul tema “Lo stato del sistema sanzionatorio e le prospettive”, è stato lanciato un accorato appello alle istituzioni. Ascoltiamo al microfono di Fabio Colagrande, Elisabetta Laganà, presidente del Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario, e Paolo Canevelli, presidente del Tribunale di sorveglianza di Perugia:RealAudioMP3

(Elisabetta Laganà)
R. – Quello che amaramente si può dire, come considerazione iniziale, è che tutto cambia affinché niente cambi. Nel senso che sono 41 anni che ci ritroviamo e facciamo convegni; ogni anno noi lanciamo un grido di allarme in merito alla situazione del carcere e sembra che ogni volta ci sia la speranza di qualche cambiamento, quindi che qualcosa possa succedere nella direzione di rendere più umana la pena. E poi, quando sembra che ci si possa arrivare ... fortunatamente qualche cosa è successo di molto importante, ma queste cose importanti, poi, vengono ridotte, dimenticate o minimizzate … allora, ogni anno, senza presunzione ma senza stancarci, anche con la determinazione che è tipica del volontariato, noi cerchiamo di porre non solo agli addetti ai lavori queste tematiche, per far capire dal di dentro che cosa succede effettivamente nel carcere, e quello che si potrebbe fare affinché le cose possano cambiare, e per spezzare l’assioma “+ carcere = sicurezza”.

 
D. – Dr. Canevelli, da qualche tempo il Seac auspica in particolare interventi legislativi e sociali che riducano l’area della detenzione. Per parlare ai non addetti ai lavori: cosa significa “ridurre l’area della detenzione” e com’è possibile, praticamente?

 
R. – Anzitutto, ci sono due profili da considerare. Il primo è quello che riguarda un enorme numero di persone che sono ristrette in carcere ancora in attesa del processo, quindi nei confronti di un numero molto rilevante di detenuti che sfiora e va oltre, anche, il 40 per cento delle presenze attuali, si potrebbe immaginare soprattutto per le persone meno “pericolose” di questo gruppo, delle forme alternative di detenzione, in una fase in cui ancora la loro colpevolezza non è stata dimostrata. In secondo luogo, poi, c’è tutto un aspetto che riguarda invece le persone condannate definitivamente che stanno in carcere per espiare la loro pena. Prevedere un’unica sanzione – il carcere uguale per tutti, per tutti i comportamenti – comporta sicuramente delle disuguaglianze. Cosa si può pensare in alternativa? Certo, si può immaginare – come molti altri Paesi hanno – sanzioni che invece non siano completamente privative della libertà personale: il lavoro di pubblica utilità, sanzioni da svolgere nell’ambito della società esterna, sanzioni ricche – anche – di prescrizioni e di contenuto anche afflittivo, se vogliamo. Sanzioni che avrebbero forse un’efficacia anche maggiore come impatto, rispetto alla vittima del reato, e che sicuramente avrebbero un’efficacia maggiore al termine della sanzione, quando poi bisogna fare i conti con l’eventuale rischio di recidiva. Perché tutte le statistiche testimoniano come l’autore di reato che sconta la pena integralmente in carcere, al momento dell’uscita dal carcere ha un rischio molto più elevato di tornare a delinquere rispetto a chi, invece, è stato preso in carico dai servizi sociali dell’amministrazione, dai servizi di rete, dal volontariato; e che, una volta uscito dal carcere, invece, ha un progetto sostenuto da tutta una serie di componenti che gli sono state vicino. (Montaggio a cura di Maria Brigini)







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