2009-10-27 15:39:51

Lettera del cardinale Bagnasco al clero e alla comunità cristiana sul “grande dono del sacerdozio”


“Offrire alcune considerazioni che aiutino la meditazione spirituale sul dono ricevuto e sulla santità sacerdotale” e “condividere la necessità di una ‘regola di vita’ perché non viviamo frantumati e assorbiti dai numerosi impegni pastorali”: è quanto afferma l'arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, nella sua ultima lettera pastorale intitolata “Io sono il Buon Pastore”. Scritta in occasione dell'Anno Sacerdotale indetto da Benedetto XVI e consegnata ieri mattina al corso di aggiornamento diocesano per sacerdoti, la lettera “sul grande dono del sacerdozio” è indirizzata “al Clero ed alla comunità cristiana”. Il sacerdote – si legge nel testo ripreso dal Sir - “prima che essere servitore della carità, è ministro dei sacramenti, strumenti della vita divina”. Dal documento emerge con chiarezza ed insistenza come il sacerdote debba essere anzitutto uomo dello spirito. “Il pastore non è un funzionario a ore – afferma il cardinale Bagnasco - ma un uomo segnato dal fuoco dello Spirito. Per lui – aggiunge - non è questione di essere un ‘conquistatore’ di anime: prima di tutto deve lui essere ‘conquistato’ da Cristo”. Per questo il sacerdote “è l’uomo della gioia, una gioia intrisa di bontà, una gioia impenitente perché non è fondata su illusioni e su beni effimeri, ma su Dio”. Di conseguenza, “il sacerdote deve essere portatore di gioia”. Il sacerdote – sottolinea il cardinale Bagnasco - è inoltre chiamato alla santità, la “vera e più efficace risposta alla complessità inedita del mondo moderno”. La santità, ha aggiunto, “è un debito che abbiamo”: anzitutto al Signore “che ci ha chiamati per pura grazia”; poi alla Chiesa “che di questa vocazione ha il compito di discernimento, di guidarne la formazione”; al popolo di Dio “che ha il diritto e il desiderio di scorgere in noi i tratti del volto di Cristo buon Pastore”; infine è un debito anche verso il mondo “che, anche quando si dichiara non cattolico, guarda ugualmente al sacerdote con curiosità, non di rado con interesse, forse nell’inconfessata speranza di trovare i segni di Dio”. Il presbitero deve condurre il gregge “ai pascoli fecondi, nella via della verità e del bene, anche quando incontra incomprensioni e rifiuti”. Cristo – sottolinea – il porporato nella lettera - “ha insegnato che la verità e l'amore non si oppongono ma sono fatti per operare insieme nel cuore dei singoli e della società”. Il cardinale mette poi in guardia i sacerdoti dal “cercare nella vita pastorale le soddisfazioni umane” come “la propria volontà, la vanità, l’affermazione di sé, l’orgoglio, il protagonismo, il plauso degli altri”. “Dobbiamo ricordare – conclude il presidente della Cei - che le opere di Dio non sono Dio e che, se assorbono l’anima, possono farci dimenticare il volto del Signore”. (A.L.)







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