Sinodo. Il vescovo del Cairo: rilanciare l'evangelizzazione per non ridurre le Chiese
nordafricane a monumenti di archeologia cristiana
Lavori a porte chiuse, oggi, al Sinodo dei Vescovi per l’Africa, in corso in Vaticano
sui temi di riconciliazione, giustizia e pace. Questa mattina i Padri sinodali si
sono riuniti nella nona sessione dei Circoli minori per la preparazione degli emendamenti
alle Proposizioni finali, che ieri sono state presentate in forma provvisoria. I testi
saranno nel pomeriggio esaminati dal relatore generale, dai segretari speciali e dai
relatori dei circoli minori. Intanto, dal vescovo caldeo del Cairo, in Egitto, mons.
Yussef Ibrahim Sarraf, è giunto il forte appello a non permettere che le Chiese
orientali e dell’Africa del Nord siano ridotte a “monumenti di archeologia cristiana”.
Il presule chiede che sia proseguita con coraggio, anche oggi, l’opera di evangelizzazione
iniziata da San Marco in Egitto. “Dobbiamo fare un grande mea maxima culpa”
ha ammonito mons. Sarraf. Paolo Ondarza lo ha intervistato:
R. – L’evangelizzazione
è iniziata dall’Egitto – la prima evangelizzazione – attraverso San Marco; e poi,
giù fino alla Nubia, e lì si è fermata. Ecco perché dico il “mea maxima culpa” – nostra
colpa – è che ci siamo fermati là: per motivi antropologici, storici e via dicendo. D.
- … e oggi è troppo tardi? R. – Non è mai troppo tardi! Bisogna
essere missionari, cioè andare a evangelizzare. E’ quello il mandato che abbiamo ricevuto
dal Signore. Ci ha detto di andare a evangelizzare tutto il mondo: non una regione,
ma tutto il mondo, fino alla fine dei tempi. E’ quello che dovrebbero fare le Chiese
orientali cattoliche – ovviamente, secondo me. D. – Andare ad
evangelizzare oggi, soprattutto in determinate aree, richiede oltre ad una grande
preparazione, un grande coraggio … R. – Il coraggio non mancherebbe.
Più che coraggio, io lo chiamerei “i doni dello Spirito”: lo Spirito Santo che accompagna,
come gli Apostoli, che all'inizio non sapevano parlare altre lingue, non sapevano
niente, eppure hanno predicato in tutto il mondo. Perciò, questo ci incoraggia: non
dobbiamo parlare noi, come uomini, ma è Dio che parla attraverso l’uomo per annunciare
Gesù Cristo. D. – Lei ha fatto un richiamo alla Chiesa universale,
cioè non dovrebbe interessarsi all’Africa solo la Chiesa africana ma l’intera Chiesa.
E’ un richiamo alla cattolicità della Chiesa? R. – Esatto. Mi
sono domandato quanti abbiano letto “Ecclesia in Africa”. Prima di tutto, in Africa
e poi, figuriamoci!, fuori dall’Africa … D. – Come vive la Chiesa
cattolica in Egitto? R. – La Chiesa cattolica in Egitto è una
minoranza, una minoranza della minoranza. La popolazione egiziana è di circa 85 milioni:
circa 10-12 milioni sono cristiani copti ortodossi. Di questi cristiani, forse 200-250
mila sono cattolici: siamo veramente una minoranza della minoranza; divisi in sette
riti – sempre cattolici; però abbiamo le scuole – 166 scuole cattoliche, alcune scuole
hanno fino a 3 mila alunni, una cosa grande, e tutti sanno e rispettano molto le nostre
scuole; abbiamo ospedali, dispensari, ambulatori … Questo è il lavoro della Chiesa
cattolica. Ovviamente, la Chiesa cattolica è molto rispettata perché rispetta gli
altri e cerca di dialogare con gli altri e vive in comunione: sette riti, ma viviamo
in un’assemblea sola, prendiamo insieme decisioni che ci riguardano tutti. I cattolici,
purtroppo, 30-40 anni fa hanno abbandonato l’Egitto e sono emigrati principalmente
negli Stati Uniti, in Canada, in Australia: questo ha avuto grande peso, perché era
anche l’intellighenzia, e ne risentiamo ancora. Molti anche oggi pensano di poter
trovare una vita migliore fuori: io consiglierei di rimanere in Egitto, anche per
dare un contributo al Paese. Anche noi siamo co-responsabili della vita dell’Egitto,
non solo gli “altri”, i musulmani o gli ortodossi: anche noi siamo cittadini dell’Egitto
a pieno titolo! Giustizia, pace e riconciliazione per la regione
dei grandi laghi. Questo il tema al centro del quinto incontro dell’Osservatorio sul
Sinodo africano, sul quale si sono confrontati ieri a Roma i Padri sinodali e i rappresentanti
di Uganda, Sudan e Congo. Un’occasione per riflettere anche sulla dura realtà dei
bambini soldato, raccontata attraverso una serie di testimonianze nel libro “Uccidi
o sarai ucciso”, presentato durante il dibattito. Per noi c’era Linda Giannattasio.
È la terra
dai mille volti e dai tanti conflitti senza memoria l’Africa raccontata dall’Osservatorio
sul Sinodo africano, che vuole riaccendere i riflettori sui problemi e le speranze
di questo continente anche al di là delle aule del Sinodo in corso in Vaticano. Molte
le guerre dimenticate, dal Congo alla Somalia, dal Ciad al Sahara occidentale, dal
nord Uganda al Darfur. Paesi protagonisti di realtà complesse esacerbate da gruppi
di ribelli e da continui colpi di Stato, tutti vittime della stessa violenza. Qual
è allora la strada da seguire? Padre Fernando Zolli, missionario
comboniano e creatore dell’Osservatorio:
“Ci vuole una rete locale e
una rete globale di solidarietà e di impegno: prima di tutto, delle Chiese locali,
ma anche poi una rete interconfessionale, dove i cristiani e i musulmani, i centri
delle religioni tradizionali, si mettono insieme per lavorare per la pace e così creare
da noi questi ponti tra l’Occidente e l’Africa”.
Ma la strada per la
riconciliazione si realizza anche attraverso la memoria di ciò che è stato, come spiega
padre Joseph Mumbere, della Repubblica Democratica del Congo:
“Secondo
le soluzioni che io sento è come se si debba cancellare tutto e ricominciare da capo,
guardare avanti come se niente fosse successo, senza ascoltare le vittime, senza avere
rispetto per tutte queste persone. E oggi si continua: i villaggi vengono bruciati,
le donne vengono stuprate ogni giorno. Allora, prima sediamoci e guardiamo la realtà
di queste persone. Questa è la cosa più importante: come dare voce, come fare memoria
e da quella memoria ripartire.”
Ancora un dramma che affligge il continente,
quello dei bambini soldato. Tra il 2002 e il 2003 oltre 8.400 ragazzini fatti prigionieri
dai ribelli. Una realtà ancora troppo presente, come racconta mons. Hilboro
Kussala, vescovo di Tombura- Yambio, in Sudan:
“Nella mia
diocesi ogni giorno ci sono ribelli che prendono i bambini nelle foreste e ne fanno
soldati. Io non ho militari, soldati, ma chiedo alla comunità di venire in nostro
aiuto. Noi, come diocesi, abbiamo recuperato alcuni bambini. Abbiamo un centro in
cui facciamo formazione per aiutarli a studiare, a rispettare gli altri, perché non
hanno rispetto per nessuno. E’ facile uccidere per loro e psicologicamente si sentono
distrutti. Quindi, bisogna aiutarli a cambiare, a rinnovare la loro vita, perché si
sentano uomini, si sentano persone”.