2009-10-21 14:10:55

Sinodo. Il vescovo del Cairo: rilanciare l'evangelizzazione per non ridurre le Chiese nordafricane a monumenti di archeologia cristiana


Lavori a porte chiuse, oggi, al Sinodo dei Vescovi per l’Africa, in corso in Vaticano sui temi di riconciliazione, giustizia e pace. Questa mattina i Padri sinodali si sono riuniti nella nona sessione dei Circoli minori per la preparazione degli emendamenti alle Proposizioni finali, che ieri sono state presentate in forma provvisoria. I testi saranno nel pomeriggio esaminati dal relatore generale, dai segretari speciali e dai relatori dei circoli minori. Intanto, dal vescovo caldeo del Cairo, in Egitto, mons. Yussef Ibrahim Sarraf, è giunto il forte appello a non permettere che le Chiese orientali e dell’Africa del Nord siano ridotte a “monumenti di archeologia cristiana”. Il presule chiede che sia proseguita con coraggio, anche oggi, l’opera di evangelizzazione iniziata da San Marco in Egitto. “Dobbiamo fare un grande mea maxima culpa” ha ammonito mons. Sarraf. Paolo Ondarza lo ha intervistato:RealAudioMP3

R. – L’evangelizzazione è iniziata dall’Egitto – la prima evangelizzazione – attraverso San Marco; e poi, giù fino alla Nubia, e lì si è fermata. Ecco perché dico il “mea maxima culpa” – nostra colpa – è che ci siamo fermati là: per motivi antropologici, storici e via dicendo.
 
D. - … e oggi è troppo tardi?
 
R. – Non è mai troppo tardi! Bisogna essere missionari, cioè andare a evangelizzare. E’ quello il mandato che abbiamo ricevuto dal Signore. Ci ha detto di andare a evangelizzare tutto il mondo: non una regione, ma tutto il mondo, fino alla fine dei tempi. E’ quello che dovrebbero fare le Chiese orientali cattoliche – ovviamente, secondo me.
 
D. – Andare ad evangelizzare oggi, soprattutto in determinate aree, richiede oltre ad una grande preparazione, un grande coraggio …
 
R. – Il coraggio non mancherebbe. Più che coraggio, io lo chiamerei “i doni dello Spirito”: lo Spirito Santo che accompagna, come gli Apostoli, che all'inizio non sapevano parlare altre lingue, non sapevano niente, eppure hanno predicato in tutto il mondo. Perciò, questo ci incoraggia: non dobbiamo parlare noi, come uomini, ma è Dio che parla attraverso l’uomo per annunciare Gesù Cristo.
 
D. – Lei ha fatto un richiamo alla Chiesa universale, cioè non dovrebbe interessarsi all’Africa solo la Chiesa africana ma l’intera Chiesa. E’ un richiamo alla cattolicità della Chiesa?
 
R. – Esatto. Mi sono domandato quanti abbiano letto “Ecclesia in Africa”. Prima di tutto, in Africa e poi, figuriamoci!, fuori dall’Africa …
 
D. – Come vive la Chiesa cattolica in Egitto?
 
R. – La Chiesa cattolica in Egitto è una minoranza, una minoranza della minoranza. La popolazione egiziana è di circa 85 milioni: circa 10-12 milioni sono cristiani copti ortodossi. Di questi cristiani, forse 200-250 mila sono cattolici: siamo veramente una minoranza della minoranza; divisi in sette riti – sempre cattolici; però abbiamo le scuole – 166 scuole cattoliche, alcune scuole hanno fino a 3 mila alunni, una cosa grande, e tutti sanno e rispettano molto le nostre scuole; abbiamo ospedali, dispensari, ambulatori … Questo è il lavoro della Chiesa cattolica. Ovviamente, la Chiesa cattolica è molto rispettata perché rispetta gli altri e cerca di dialogare con gli altri e vive in comunione: sette riti, ma viviamo in un’assemblea sola, prendiamo insieme decisioni che ci riguardano tutti. I cattolici, purtroppo, 30-40 anni fa hanno abbandonato l’Egitto e sono emigrati principalmente negli Stati Uniti, in Canada, in Australia: questo ha avuto grande peso, perché era anche l’intellighenzia, e ne risentiamo ancora. Molti anche oggi pensano di poter trovare una vita migliore fuori: io consiglierei di rimanere in Egitto, anche per dare un contributo al Paese. Anche noi siamo co-responsabili della vita dell’Egitto, non solo gli “altri”, i musulmani o gli ortodossi: anche noi siamo cittadini dell’Egitto a pieno titolo!
 
Giustizia, pace e riconciliazione per la regione dei grandi laghi. Questo il tema al centro del quinto incontro dell’Osservatorio sul Sinodo africano, sul quale si sono confrontati ieri a Roma i Padri sinodali e i rappresentanti di Uganda, Sudan e Congo. Un’occasione per riflettere anche sulla dura realtà dei bambini soldato, raccontata attraverso una serie di testimonianze nel libro “Uccidi o sarai ucciso”, presentato durante il dibattito. Per noi c’era Linda Giannattasio.RealAudioMP3

È la terra dai mille volti e dai tanti conflitti senza memoria l’Africa raccontata dall’Osservatorio sul Sinodo africano, che vuole riaccendere i riflettori sui problemi e le speranze di questo continente anche al di là delle aule del Sinodo in corso in Vaticano. Molte le guerre dimenticate, dal Congo alla Somalia, dal Ciad al Sahara occidentale, dal nord Uganda al Darfur. Paesi protagonisti di realtà complesse esacerbate da gruppi di ribelli e da continui colpi di Stato, tutti vittime della stessa violenza. Qual è allora la strada da seguire? Padre Fernando Zolli, missionario comboniano e creatore dell’Osservatorio:

“Ci vuole una rete locale e una rete globale di solidarietà e di impegno: prima di tutto, delle Chiese locali, ma anche poi una rete interconfessionale, dove i cristiani e i musulmani, i centri delle religioni tradizionali, si mettono insieme per lavorare per la pace e così creare da noi questi ponti tra l’Occidente e l’Africa”.

Ma la strada per la riconciliazione si realizza anche attraverso la memoria di ciò che è stato, come spiega padre Joseph Mumbere, della Repubblica Democratica del Congo:

“Secondo le soluzioni che io sento è come se si debba cancellare tutto e ricominciare da capo, guardare avanti come se niente fosse successo, senza ascoltare le vittime, senza avere rispetto per tutte queste persone. E oggi si continua: i villaggi vengono bruciati, le donne vengono stuprate ogni giorno. Allora, prima sediamoci e guardiamo la realtà di queste persone. Questa è la cosa più importante: come dare voce, come fare memoria e da quella memoria ripartire.”

Ancora un dramma che affligge il continente, quello dei bambini soldato. Tra il 2002 e il 2003 oltre 8.400 ragazzini fatti prigionieri dai ribelli. Una realtà ancora troppo presente, come racconta mons. Hilboro Kussala, vescovo di Tombura- Yambio, in Sudan:

“Nella mia diocesi ogni giorno ci sono ribelli che prendono i bambini nelle foreste e ne fanno soldati. Io non ho militari, soldati, ma chiedo alla comunità di venire in nostro aiuto. Noi, come diocesi, abbiamo recuperato alcuni bambini. Abbiamo un centro in cui facciamo formazione per aiutarli a studiare, a rispettare gli altri, perché non hanno rispetto per nessuno. E’ facile uccidere per loro e psicologicamente si sentono distrutti. Quindi, bisogna aiutarli a cambiare, a rinnovare la loro vita, perché si sentano uomini, si sentano persone”.







All the contents on this site are copyrighted ©.