Al Festival di Roma la storia russa sullo sfondo di “The last station” e “Le Concert”
La Russia di Tolstoj e quella degli oligarchi: con arguzia e ironia due film al Festival
di Roma divertono e commuovono. “The last station” segue da vicino il grande scrittore
russo nell’ultimo periodo della vita, mentre “Le Concert”, dopo un drammatico prologo
ai tempi sovietici, trasforma in una farsa delicata le avventure di un’orchestra e
del suo direttore alle prese con la Mosca di oggi e alla ricerca della gloria perduta.
“Non cercherò delle spiegazioni per tutti i problemi. So che la spiegazione di tutto
l’esistente – così come il principio di ogni cosa – deve nascondersi nell’infinito”.
Era l’anno 1879 quando Tolstoj così rifletteva a chiusura della sua Confessione, un
libretto non voluminoso, ma profondissimo, acuto e sincero quanto ad intenzioni. Viene
citato da Christopher Plummer che nel film di Michael Hoffman "L’ultima stazione"
impersona con grande carisma lo scrittore russo negli anni che precedono la sua scomparsa,
avvenuta appunto alla stazione ferroviaria di Astapovo nel 1910. E’ un film attento
ai caratteri e alle piccole situazioni più che allo sviluppo narrativo, che si sofferma
soprattutto sulle figure, quasi titaniche nella loro forza travolgente, ma molto umane
nella loro debolezza, di Tolstoj e della Contessa Sofia, sua moglie, amata e odiata,
interpretata da una come sempre splendida Helen Mirren. Gli scontri e le carezze,
le colazioni e i litigi, avvengono quotidianamente nel loro soltanto apparente buon
ritiro di Jasnaja Poljana. Ci sono di mezzo i diritti delle opere immortali del russo,
infatti, e le questioni ereditarie, ci sono i suoi principi filosofici che lo incupiscono
più che dargli sollievo, c’è l’amore del passato e la coerenza difficile del presente,
e quelle figure di contorno che plaudono incondizionatamente il genio e lo vezzeggiano
adulandolo, cercando di sfruttarne gli ultimi pensieri. E’ un film prezioso ed elitario,
visivamente pieno di fascino e che ripropone l’eterno confronto acceso dall’essere
e dalle tentazioni dell’avere, qui complicate dalla fama e dalla bizzarria di chi
ha anche quei requisiti letterari e spirituali di rara e singolare immortalità. Una
Russia completamente diversa, farsesca, con pennellate ironiche e con un commovente
finale, è quella che Radu Mihaileanu, il regista romeno del bellissimo "Train de vie",
immagina fondendo insieme le note di Čajkovskij e del suo violino, le aspirazioni
dell’arte e non poche passioni del cuore. "Le Concert" ha un prologo comunista: ai
tempi di Brežnev l’Orchestra del Bolshoi viene depurata dagli elementi di origine
ebraica, mandando tutti allo sbando. Il direttore Andreï Filipov è cacciato proprio
in una serata a teatro esaurito nel corso della quale il suo concerto, quello dell’”armonia
suprema” finalmente raggiunta, viene drammaticamente interrotto, facendo calare il
sipario anche sulle aspirazioni di tutta una vita. Trent’anni più tardi, li ritroviamo
a vivere di espedienti e con piccoli impieghi molto distanti da quello, assai nobile,
legato al suono dei loro strumenti. Ma il destino offre una riparazione inaspettata
e così, in un travolgente, secondo capitolo parigino, l’Orchestra e suoi professori
hanno la possibilità di realizzare un sogno del passato e dare spazio alle lacrime
del presente, proprio quando, finalmente, trionfa la bontà. (A cura di Luca Pellegrini)