Anno Sacerdotale: la testimonianza del sacerdote congolese Claude Kisawki
Dalla Repubblica Democratica del Congo all’Italia per seguire la vocazione sacerdotale.
È la storia di don Claude Kisawki, 56 anni, primo parroco africano della diocesi
di Savona-Noli. Specializzatosi in Teologia liturgica presso il Pontificio Ateneo
Sant’Anselmo di Roma, oggi don Claude guida la comunità parrocchiale di San Bernardo
Abate a Cogoleto, in Liguria. Al microfono di Isabella Piro, racconta come
è nata la sua vocazione:
R.
– Come chierichetto, servendo la Messa, mi è venuta l’idea di chiedere al parroco
cosa dovevo fare per diventare prete. Avevo appena 11 anni. Il prete mi disse che
era difficile, perché si sarebbe dovuto studiare molto, bisognava avere una buona
salute, sia morale che fisica. Alla fine sono andato nel seminario minore, poi ho
fatto quello maggiore e sono diventato sacerdote.
D.
– Perché, poi, ha scelto proprio l’Italia per seguire i suoi studi?
R.
– Sono arrivato qui per specializzarmi in liturgia e sappiamo che l’Istituto Sant’Anselmo
è specializzato proprio nella liturgia. Ho fatto questo tipo di studio lì e dopo sono
rimasto. Qualche volta sono anche tornato nel mio Paese per animare alcune cose che
avevo lì.
D. – Ci sono stati momenti particolarmente
difficili nel corso della sua vita sacerdotale?
R. –
Sì. All’inizio, essendo giovane, a volte mi sono trovato in situazioni d’indifferenza
e spesso mi sono chiesto che senso avesse la vita. Poi invece con la preghiera, con
la determinazione e con la coscienza sono riuscito a superare questi momenti.
D.
– Se tornasse indietro sceglierebbe nuovamente la vocazione?
R.
– Sì, certamente, perché sono molto contento di quello che Dio ha fatto per me. E’
il Signore che mi ha scelto.
D. – Lei è il primo africano
a diventare parroco della diocesi di Savona-Noli. Come l’hanno accolta i suoi parrocchiani?
R.
– Per loro è stata una grande gioia. Mi hanno accolto con molto entusiasmo e ne è
la prova il fatto che hanno collaborato molto con me e continuano a farlo.
D.
– Nel momento in cui lei si è trasferito in Italia ha avuto problemi d’integrazione,
ha vissuto i pregiudizi?
R. – Non ho avuto quest’impressione.
C’è stato un momento di curiosità: la gente chiedeva da dove venissi, quale tipo di
studio facessi, facevano tante domande. Finora però non ho mai avuto difficoltà nell’integrarmi
perché sapevo cosa fare e sapevo anche chi ero io, qual era la mia cultura. Per questo
non ho trovato alcun ostacolo nell’integrazione.
D.
– Secondo lei una buona integrazione su cosa si basa?
R.
– Una buona integrazione si basa prima di tutto sulla coscienza, la consapevolezza
ed anche l’accettazione dell’altro. Sapere che l’altro è diverso da me nella cultura,
nel temperamento e saper accettare queste diversità. Serve poi la determinazione:
non bisogna scoraggiarsi per dei piccoli fatti che possono accadere inizialmente.
Infine, soprattutto per noi che siamo cristiani, c’è la preghiera: saper pregare ed
avere la coscienza che Dio non abbandona nessuno. Sapere che se vado verso il popolo
per imparare e per dare, troverò l’ostacolo. Ma quest’ostacolo non deve impedirmi
di andare avanti.
D. – Cosa si aspetta che il Sinodo
dei vescovi per l’Africa possa fare per il suo continente?
R.
– La prima cosa sarà la gioia di vivere. Vivere nella fede, nell’amore e nella speranza.
Nel momento in cui i giornali e la televisione parlano delle paure per la crisi, noi
annunciamo all’Africa la speranza. Si deve vivere questa speranza con determinazione,
ma dobbiamo anche vivere l’unità. Noi africani dobbiamo sapere che nessuno verrà a
lavorare al nostro posto. Senza di noi, nessuno parlerà dell’Africa e perciò l’evangelizzazione
deve riprendere il suo posto. Un’evangelizzazione completa, umana, ma anche spirituale.
D.
– L’Anno Sacerdotale può essere un aiuto per tutto questo?
R.
– Certamente. Soprattutto per i sacerdoti. Dipende dalla coscienza, dalla loro vita.
Si deve però anche prendere coscienza di essere servi del popolo, essere sia dalla
parte del popolo che dei sacerdoti. C’è un cammino da fare insieme: aiutare l’Africa
a vivere integralmente la sua vita.