Riconciliazione, giustizia e pace: obiettivo ancora lontano per la Somalia
Riconciliazione, giustizia e pace: i temi al centro del Sinodo sull’Africa in corso
in Vaticano sembrano essere obiettivi lontani per alcune aree calde del continente
devastate da violenze e guerre civili. E’ il caso della Somalia dove i combattimenti
non cessano. Il nostro inviato al Sinodo Paolo Ondarza ha intervistato mons.
Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio:
R. – Purtroppo
sembrano essere traguardi molto lontani se si pensa che ci sono state 15 conferenze
internazionali di riconciliazione e di pace per la Somalia che non hanno portato il
frutto che desideravamo. Nonostante questo ho detto: se il male è forte la nostra
speranza deve essere più forte del male. D. – Che cosa vuol
dire portare il Vangelo ed essere cristiano in Somalia? R. -
Il Cristo che noi possiamo portare in Somalia è quello che si identifica e che troviamo
già tra i poveri, i percossi dalla storia, tra le vittime di questa assurda guerra
civile. Questo per me significa arrivare con la propria fede cristiana e trovare Cristo
crocifisso in Somalia. D. – Qual è la relazione tra i cristiani
e i musulmani nella terra in cui lei si trova ad operare? R.
– Mi trovo tra Gibuti e Somalia, due realtà distinte ma culturalmente e socialmente
molto simili. La distinzione è soprattutto a livello politico: da una parte c’è uno
Stato e dall’altra, in Somalia, la totale assenza dello Stato. Direi che le relazioni
con la maggior parte degli abitanti di questi due Paesi, con quelli che poi ci conoscono
soprattutto, sono state in genere relazioni umane semplici di rispetto reciproco.
Il problema che si è sviluppato in modo molto chiaro in Somalia, ma che sta attecchendo
un po’ a Gibuti, sono i diversi gruppi che si lasciano ispirare da un’ideologia islamista
radicale di conquista del mondo e allora è difficile avere delle relazioni con loro
perché, in effetti, stanno seminando odio e disprezzo per tutto ciò che non è musulmano.
Ecco perché nel mio intervento avevo detto che bisogna cercare di isolare questi gruppi.
Bisogna soprattutto che noi evitiamo di fare di ogni erba un fascio perché faremmo
proprio il gioco di questi elementi fondamentalisti, musulmani, cioè dire che tutti
i musulmani sono uguali, che tutti sono terroristi: non è vero, sono un gruppetto.
E’ vero che però hanno una forte capacità di manipolare la loro gente. D.
– Soprattutto laddove c’è povertà… R. – Soprattutto dove c’è
povertà anche perché appunto la povertà si accoppia all’ignoranza. Ricordo che un
somalo cattolico che è qui in esilio mi diceva: guarda, non ho paura dei cattivi ma
degli ignoranti, perché i cattivi possiamo sperare di convertirli, ma l’ignorante
è ignorante e non può neanche convertirsi. D. – La comunità
cristiana ha paura di vivere a contatto con espressioni di fondamentalismo religioso? R.
– A Gibuti, siccome c’è lo Stato, allora lo Stato garantisce una certa sicurezza e
dunque più che paura, hanno un certo timore. Mentre certamente in Somalia, in questo
momento, non esiste una comunità organizzata, ma esistono degli individui cristiani
i quali certamente hanno paura a manifestare se stessi. D. –
Crede che i cristiani - lei faceva riferimento non a una comunità ma a singoli individui
- stiano guardando con speranza a questo Sinodo? R. – Certamente
guardano con speranza a questo Sinodo, guardano con speranza alla comunità internazionale
perché sono convinti che la Somalia non riesca ad uscire dal baratro in cui è piombata
se non con l’aiuto della comunità internazionale e quindi, nella comunità internazionale,
con l’aiuto anche della Chiesa.