2009-10-10 12:08:02

Intervento di Suor Geneviève UWAMARIYA, Suora di Santa Maria di Namur (RWANDA), Uditrice


Rev.da Suora Geneviève UWAMARIYA, Suora di Santa Maria di Namur (RWANDA)

Condividerò con voi la mia esperienza di riconciliazione con i detenuti presunti autori dei genocidi. E vi metterò a parte dei frutti della mia testimonianza presso di loro e presso le loro vittime sopravvissute.
Sono una sopravvissuta al genocidio dei Tutsi del Rwanda nel 1994.
Gran parte della mia famiglia è stata massacrata nella nostra chiesa parrocchiale. La vista di questo edificio mi riempiva di orrore e di ribellione, proprio come l’incontro con alcuni detenuti mi riempiva di disgusto e di rabbia.
È in questo stato d’animo che mi accadde un fatto che ha cambiato la mia vita e i miei rapporti.
Il 27 agosto 1997, alle 13.00, un gruppo dell’associazione delle “Dame della misericordia divina” mi portarono in due prigioni della regione di Kibuye, la mia città natale. Venivano per preparare i detenuti al giubileo del 2000. Dicevano: “Se hai ucciso, ti impegni a chiedere perdono alla vittima sopravvissuta, così l’aiuti a liberarsi dal peso della vendetta, dell’odio e del rancore. Se sei vittima, ti impegni ad offrire il tuo perdono a colui che ti ha fatto torto, così lo aiuti a liberarsi dal peso del suo crimine e dal male che c’è in lui”.
Questo messaggio ebbe su di me un effetto inaspettato...
Dopo di questo, uno dei prigionieri si alzò in lacrime, cadde in ginocchio davanti a me supplicandomi dicendo ad alta voce: “misericordia”. Rimasi pietrificata riconoscendo l’amico di famiglia che era cresciuto con noi e aveva condiviso tutto.
Mi confessò di essere stato lui ad uccidere il mio papà e mi descrisse nei particolari la morte dei miei.
Un sentimento di pietà e di compassione m’invase, lo rialzai, lo abbracciai e, singhiozzando, gli dissi: “sei e rimani mio fratello”. In quel momento sentii come un peso cadere... Ritrovai la pace interiore e ringraziai colui che ancora stringevo fra le braccia.
Con mia grande sorpresa, lo udii gridare: “la giustizia può fare il suo corso e condannarmi a morte, adesso sono libero!”.
Anch’io volevo gridare a chi voleva ascoltarmi: “vieni a vedere ciò che mi ha liberato, puoi ritrovare anche tu la pace interiore”.
A partire da quel momento, la mia missione fu di percorrere chilometri per portare la posta dei detenuti che chiedevano perdono ai sopravvissuti. Così furono distribuite 500 lettere mentre riportavo anche le lettere di risposta dei sopravvissuti ai detenuti ridiventati miei amici e miei fratelli... Ciò ha permesso degli incontri fra i carnefici e le vittime. Vi sono stati numerosi gesti concreti a marcare la riconciliazione:
- un villaggio per vedove e orfani del genocidio è stato costruito dai detenuti;
- come pure il memoriale davanti alla chiesa di Kibuye;
- in varie parrocchie, sono nate delle associazioni di ex-detenuti con sopravvissuti e funzionano molto bene.
Da questa esperienza, deduco che la riconciliazione non è tanto voler riportare assieme due persone o due gruppi in conflitto. Si tratta piuttosto di rimettere ciascuno nell’amore e lasciare che avvenga la guarigione interiore che permette la liberazione reciproca.
E sta in questo l’importanza della Chiesa nel nostro paese, dato che essa ha come missione offrire la Parola: una parola che guarisce, libera e riconcilia.







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