2009-10-09 19:30:32

Intervento di Rodolphe ADADA, già Rappresentante Congiunto della Missione di Pace in Darfur, Invitato Speciale al Sinodo


INTERVENTO DELL’INVITATO SPECIALE RODOLPHE ADADA, GIÀ RAPPRESENTANTE SPECIALE CONGIUNTO DEL SEGRETARIO GENERALE DELLE NAZIONI UNITE E DEL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE DELL’UNIONE AFRICANA NEL DARFUR (SUDAN).
Ascolta il discorso di Rodolphe Adada in lingua originale francese: RealAudioMP3  Introduzione



È un immenso onore per me potermi rivolgere, in presenza di Sua Santità, a questo areopago di Principi della Chiesa, riuniti in questa aula sacra.

Come sapete, non ho più l’incarico dell’UNAMID (African Union/United Nations Hybrid operation in Darfur) e le opinioni che esprimo, adesso, riguardano solo me. Il dibattito sul Darfur è divenuto così polarizzato che è difficile mantenere una posizione obiettiva. Questo è ancora più spiacevole perché solo un approccio neutro può garantire soluzioni durature.

Di fronte a Sua Santità, vorrei offrire una testimonianza il più imparziale possibile. So di poter parlare serenamente, poiché la Chiesa è una forza di pace e la pace esige la verità.

Alla fine del 2005, il Congo è stato eletto membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il periodo 2006/2007 e nel gennaio del 2006, il Presidente Denis Sassou-Nguesso viene eletto presidente in carica dell’Unione Africana. Queste due decisioni hanno fatto del Ministro degli Esteri del Congo - quale ero all’epoca - un osservatore privilegiato dei grandi problemi che attanagliavano l’Africa, tra i quali, al primo posto, vi era la crisi del Darfur.

Ho così potuto seguire l’evoluzione di tale questione più da vicino. Quando il segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, e il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Alpha Oumar Konaré, hanno scelto la mia persona per dirigere la prima missione ibrida Nazioni Unite/Unione Africana e il presidente Denis Sassou-Nguesso ha dato il suo consenso, mi sono sentito investito di una triplice fiducia. Era mio compito meritarla.



Il conflitto



Tutti sanno che il conflitto del Darfur è esploso nel febbraio del 2003 quando un gruppo ribelle, il Sudan Liberation Army - SLA - guidato da Abdulwahid Mohammed Al Nur, ha attaccato Gulu, il capoluogo del Jebel Marra. Successivamente, ad aprile, questo gruppo attaccò l’aeroporto di El Fasher, capitale del Darfur. Venne poi formato un secondo gruppo, conosciuto come Justice and Equality Movement - JEM - guidato da Khalillbrahim.

La risposta del governo sudanese si manifestò con quella che alcuni hanno definito “contro-insurrezione al ribasso”, estremamente violenta e basata sullo sfruttamento delle rivalità etnico sociologiche tramite l’uso dei “Janjaweeds” dalla pessima reputazione.

Le conseguenze furono spaventose: centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati (IDP e rifugiati), incalcolabili violazioni dei diritti umani. Una crisi umanitaria senza precedenti.

A meno di 10 anni dal genocidio del Ruanda, la crisi del Darfur ha subito sollevato la questione del genocidio. Conoscete la controversia su questo punto delicato.

Tuttavia, un’analisi più profonda dimostrerebbe che il conflitto del Darfur affonda le sue radici nella storia del Sudan. La storia, l’emarginazione delle regioni periferiche e il loro sottosviluppo, il degrado dell’ecosistema sono fattori da non trascurare. È una “crisi del Sudan in Darfur”. Questa crisi è legata anche alla storia del vicino Ciad. Per esempio, il FROLINAT creato negli anni ’60 per lottare contro il presidente del Ciad, François Tombalbaye, è stato fondato a Nyala, nel Darfur, e non è un caso che il primo mediatore nel conflitto sia stato il presidente del Ciad, Idriss Deby. Il lungo conflitto del Tehad ha contribuito anche a far affluire armi leggere in Darfur.

Si diceva che “il Darfur degli anni ’90 era carente d’acqua, ma che invece era inondato di fucili”.

Già prima del 2003, la crisi attuale comincia in realtà con una guerra civile tra i Fur e gli arabi, durante la quale ogni parte accusava l’altra di tentato genocidio.

Ecco due citazioni:

1. “La sporca guerra che ci è stata imposta è iniziata come una guerra economica ma ha ben presto assunto il carattere di genocidio e aveva lo scopo di cacciarci dalla nostra terra ancestrale (...). Lo scopo è un olocausto totale e (...) l’annichilimento completo del popolo Fur e di tutto ciò che è Fur”.

2. “La nostra tribù araba e i Fur hanno convissuto pacificamente nel corso di tutta la storia del Darfur. Ma la situazione ha conosciuto una destabilizzazione verso la fine degli anni ’70 quando i Fur hanno lanciato il motto “il Darfur ai Fur”... Gli arabi sono stati dipinti come gli stranieri che dovevano essere espulsi dal Darfur... Sono i Fur che, nella loro ricerca di espansione della cosiddetta “cintura africana”, vogliono espellere tutti gli arabi da questa terra”.

Queste parole piene d’odio sono state pronunciate durante la conferenza di riconciliazione svoltasi a El Fasher, dal 29 maggio all’8 luglio 1989.

Eppure, questa dimensione etnica è solo la punta dell’iceberg. Questo conflitto è assai più complesso della descrizione manichea comunemente diffusa.



La risposta della Comunità Internazionale



Oltre alle organizzazioni umanitarie che continuano a fare un lavoro ammirevole a servizio del popolo sudanese del Darfur, l’Unione Africana è stata la prima a reagire. Nell’aprile del 2004, essa ha organizzato delle trattative per giungere alla firma del cessate il fuoco umanitario di N’Djamena tra il governo del Sudan e i due movimenti ribelli, cioè lo SLA di Abdulwahid El Nur e il JEM di Khalillbrahim. È questo accordo che permetterà di avviare la MUAS (Missione dell’Unione Africana in Sudan), con il sostegno di numerosi donatori tra i quali è giusto citare almeno l’Unione Europea, gli Stati Uniti d’America e il Canada.

La MUAS ha cominciato con 60 osservatori e una forza di protezione di 300 soldati ma successivamente è passata a 7000 uomini. Era la prima missione di peace keeping organizzata dall’Unione Africana e non è stata la più facile.

La MUAS è stata oggetto di molte critiche da parte dei media occidentali. Queste critiche sono ingiustificate e ingiuste.

Il lavoro svolto da questa missione è stato enorme e merita di essere elogiato. In condizioni in cui nessuno voleva intervenire, questi africani hanno assicurato con sacrificio e dedizione la presenza della comunità internazionale in Darfur.

Hanno dato testimonianza della compassione umana. Hanno gettato le basi di ciò che oggi è l’UNAMID. Sessantuno (61) di loro hanno fatto il supremo sacrificio.



Dal MUAS al MINUAD



Dalla fine del 2005, di fronte alla complessità dei problemi di ogni genere posti dalla gestione della MUAS, è apparso difficile per l’Unione Africana continuare ad assumersi questa responsabilità. L’Unione Africana ha preso allora la decisione di passare il testimone all’ONU cui spettava la missione. Il governo del Sudan si oppose con forza a questa decisione. Tutto il 2006 è trascorso nel tentativo di convincere il governo sudanese della necessità di questo passaggio di responsabilità.

Soltanto il 16 novembre del 2006 il segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, in procinto di andarsene, fece la proposta di una missione ibrida. Il governo sudanese accettò e nacque così l’UNAMID, la Missione delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana in Darfur.

L’UNAMID è stata formalmente creata con la risoluzione 1769 del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, attraverso il rapporto congiunto del segretario generale delle Nazioni Unite e del presidente della Commissione dell’Unione Africana. Essa prevede 20.000 militari, 6.000 poliziotti e altrettanti civili, diventando così la più grande forza di peace keeping del mondo. Doveva essere dotata di tutti gli strumenti necessari allo svolgimento del suo mandato secondo il capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite e doveva essere preceduta da due “moduli di sostegno” (light support package e heavy support package) alla MUAS per rafforzarla prima del passaggio di potere.

L’UNAMID ha come mandato:

- contribuire a ristabilire le condizioni di sicurezza necessarie alla distribuzione degli aiuti umanitari;

- garantire la protezione della popolazione civile;

- seguire e verificare l’applicazione dei diversi accordi del cessate il fuoco

- contribuire all’applicazione dell’accordo di pace di Abuja e di ogni altro accordo.

Lo spiegamento dell’UNAMID ha costituito una grande sfida. Si tratta della più grande missione al mondo nella regione più interna del più grande paese africano. In Africa, il punto più lontano dal mare è in Darfur. Le infrastrutture per i trasporti sono inesistenti. L’UNAMID succede alla MUAS che non ha potuto usufruire dei “moduli di sostegno” promessi. Tutto ciò ha costituito un insieme di ostacoli che abbiamo dovuto superare.

La reticenza, se non la resistenza, del governo sudanese nei confronti della presenza di una missione delle Nazioni Unite in Darfur ha rappresentato un ulteriore problema da gestire. Le condizioni del dibattito internazionale sul Darfur avevano stigmatizzato il governo del Sudan che, da parte sua, vedeva nella “comunità internazionale” semplicemente una forza il cui scopo era il rovesciamento del regime. Ma, con l’aiuto dell’Unione Africana, è stato possibile diminuire il sospetto nei confronti dell’UNAMID. A questo scopo, è stato necessario lavorare a stretto contatto con il governo. Credo che oggi il governo sudanese sia convinto che l’UNAMID è una forza di pace e non l’avanguardia di una forza di invasione. È stata creata una Commissione tripartita (ONU-UA e governo del Sudan) per risolvere ogni problema riguardante lo svolgimento dell’UNAMID.

Questo mio impegno presso il governo sudanese non è mai stato ben visto né tanto meno capito.

La maggior parte delle missioni di peace keeping si svolgono negli “stati in fallimento”, in cui il governo è o inesistente o impotente (Bosnia, Kosovo, Timor...). In questi casi, la missione dell’ONU diventa un vero governo e il rappresentante speciale quasi il capo di governo. In Sudan non è così. Le Nazioni Unite devono su questo punto effettuare una vera “rivoluzione culturale”.
Oggi possiamo considerare che il grosso delle truppe sarà sul campo verso la fine dell’anno. Occorre tuttavia sottolineare che alcuni mezzi tecnici promessi dai “moduli di sostegno” non sono ancora stati forniti e in particolare gli elicotteri militari che permetterebbero una maggiore mobilità in un territorio grande come la Francia. È una delle incongruenze delle decisioni della “comunità internazionale”.

L’UNAMID ha dovuto anche far fronte alla diffidenza e persino all’ostilità degli sfollati. Far accettare l’UNAMID agli sfollati e ai movimenti armati è stato più difficile. Molti di loro rifiutavano il suo “carattere africano”.

D’altra parte, la loro ostilità all’accordo di Abuja di cui l’UNAMID doveva assicurare l’attuazione complicava ancor più la situazione. Ma la nostra azione sul campo - soprattutto al tempo della crisi del campo di Kalma dove un’“operazione di polizia” ha portato alla morte di 38 sfollati, all’espulsione di tredici ONG internazionali e ai combattimenti di Muhajeriya e Umm Baru fra il JEM e le forze governative, l’UNAMID ha dato assistenza ai feriti dei due campi, pur proteggendo le migliaia di civili che avevano trovato rifugio presso di essa - la nostra azione sul campo, come dicevo, è riuscita a convincere gli sfollati dell’imparzialità dell’UNAMID nell’attuazione del suo mandato. Lo hanno dichiarato in una lettera commovente che abbiamo considerato come una vera e propria onorificenza.

Oggi l’UNAMID è presente ovunque in Darfur. Tutte le componenti della missione, i militari, la polizia, i civili (affari politici, affari civili, diritti umani e del DDDC - Darfur-Darfur Dialogue and Consultations) mantengono rapporti regolari con tutte le parti, con la società civile e con la popolazione in generale. Essi osservano la situazione giorno per giorno e possono fedelmente darne conto. Partecipano anche con successo alla risoluzione delle dispute locali.



La situazione attuale in Darfur



Durante i 26 mesi che ho appena trascorso in Darfur come responsabile dell’UNAMID, ho potuto osservare un miglioramento progressivo della situazione della sicurezza in Darfur e ciò malgrado il persistere di due gravi rischi: la proseguimento delle operazioni militari fra il JEM e le forze governative da una parte e il deterioramento delle relazioni fra il Ciad e il Sudan dall’altra. A questo è opportuno aggiungere le lotte inter-tribali e l’aumento del banditismo, dovuti in gran parte al crollo della legge e dell’ordine.

La criminalità e il banditismo sono oggi la preoccupazione principale in materia di sicurezza. Osserviamo inoltre una nuova tendenza al rapimento di persone a scopo di riscatto. La strategia dell’UNAMID per la protezione dei civili mira a controllare tutte queste cause di pericolo per i civili innocenti. Si tratta per l’UNAMID di rafforzare la sua presenza nei campi profughi (ormai è presente 24 ore su 24 in 15 campi) e di moltiplicare il numero di pattuglie di polizia e dei militari nelle città e nei villaggi.

Ma, detto questo, la situazione è cambiata radicalmente dopo l’intenso periodo 2003-2004 quando venivano uccise decine di migliaia di persone. Oggi, in termini puramente numerici, possiamo dire che il conflitto del Darfur è un conflitto di bassa intensità. Non vorrei insistere su questa macabra contabilità che appassiona i media: un morto è un morto di troppo e i numeri che avevo citato al Consiglio di Sicurezza erano lì solo per sostenere l’analisi.

Questo non significa assolutamente che il conflitto in Darfur sia concluso! Infatti, il conflitto in Darfur continua. I civili continuano a correre rischi inaccettabili. Milioni di persone si trovano ancora nei campi profughi o sono rifugiati. A causa dell’insicurezza, non possono tornare a casa e riprendere una vita normale. Non è stata ancora trovata alcuna soluzione alle gravi ingiustizie e ai crimini commessi, in particolare durante il picco delle ostilità, nel 2003-2004.

I progressi che osserviamo sul campo devono essere consolidati con un accordo di pace che deve essere inclusivo. Esso dovrebbe comprendere non solo i movimenti armati ma anche l’insieme delle componenti della società del Darfur, inclusa la società civile, gli sfollati, i rifugiati, senza dimenticare gli arabi che vengono troppo spesso assimilati ai Janjaweeds. Infatti, solo un accordo politico accettato e condiviso da tutti è in grado di riportare una pace duratura in Darfur.

In realtà, è proprio ciò che manca di più, oggi, all’UNAMID: un accordo di pace. Infatti, questa missione di peace keeping non ha pace da mantenere.

Non c’è soluzione militare al problema del Darfur, non può esserci. Nessuno ha i mezzi per vincere militarmente. L’unica opzione è quindi un accordo politico e questo accordo deve tener conto di tutti gli aspetti del problema, locali, regionali, politici, socio-economici, senza dimenticare la grave questione umanitaria.

I vari tentativi di negoziazione dal 2003 non hanno portato a una soluzione. L’accordo di Abuja, firmato il 5 maggio 2006, non è stato inclusivo ed è stato rifiutato da gran parte della popolazione del Darfur. L’attuale mediazione UA-UN deve tenerne conto e puntare alla partecipazione di tutti.

I prossimi due anni saranno cruciali per il Sudan. Sono previste elezioni generali nell’aprile del 2010 e, nel 2011, ci sarà il referendum per l’autodeterminazione del Sudan meridionale. È necessario che il Darfur partecipi a elezioni giuste e trasparenti e, perché l’esercizio di autodeterminazione del Sud si svolga in condizioni ottimali, il problema del Darfur dovrebbe essere già risolto. A dir poco, il tempo stringe.



Pace, giustizia e riconciliazione



In Darfur sono state commesse terribili violazioni dei diritti umani, in particolare nel 2003-2004. Questi problemi non sono stati trattati. La pace e la giustizia sono due facce della stessa medaglia. La questione non è sapere se la giustizia deve essere promossa, ma piuttosto il come farlo.

Il procuratore della corte penale internazionale (CPI) ha chiesto e ottenuto l’emissione di una mandato d’arresto contro il presidente del Sudan.

L’UNAMID ha sempre insistito sul fatto che questa questione esulava dal suo mandato e non ha mai commentato questa decisione della giustizia. Ma è una questione che domina il dibattito e tutto il processo di trattamento del problema del Darfur. L’Unione Africana, pur precisando di non tollerare in alcun caso l’impunità, ha chiesto che questo mandato d’arresto venga differito per rendere la pace possibile, ma il Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite non è giunto ad un accordo sull’applicazione dell’articolo 16 dello Statuto di Roma. Questo ha spinto l’Unione Africana a chiedere ai suoi membri di non eseguire il mandato d’arresto. Parlando a titolo strettamente personale, ritengo che ci troviamo oggi in una situazione di stallo. L’esecuzione di un mandato d’arresto contro un capo di stato in carica non è una cosa facile e si può comprendere la reticenza a negoziare, espressa da alcuni movimenti armati. “Perché negoziare con un criminale in procinto di essere arrestato?”.

L’Unione Africana ha creato una Commissione ad Alto Livello (AU High-Level Panel on Darfur), presieduta dal presidente Thabo Mbeki (ex presidente del Sudafrica) che comprende, fra gli altri, il presidente Abdusalami Aboubakar (ex presidente della Nigeria) e Pierre Buyoya (ex presidente del Burundi), per studiare questa questione della pace, della giustizia e della riconciliazione e avanzare delle proposte. La Commissione è composta da eminenti esperti e conoscitori dei problemi del Darfur, del Sudan e della giustizia. Sono stato ascoltato da questa Commissione come altre 3000 e più persone. L’UNAMID e, più precisamente, la sua componente DDDC (Darfur-Darfur-Dialogue and Consultations), ha offerto tutto il suo sostegno alla Commissione.

La Commissione ha dovuto presentare il suo rapporto ieri, 8 ottobre. Questo rapporto dovrebbe contenere le linee programmatiche per uscire dall’impasse. La comunità internazionale dovrebbe esaminare questo rapporto con obiettività e spirito costruttivo. La Chiesa, forza di pace, elevata autorità morale, potrebbe interessarsi al lavoro di questa Commissione. Forse potremmo trovarvi una via d’uscita alla situazione di stallo.

L’UNAMID è uno strumento straordinario di pace, unico nel suo genere, essendo nato dalla volontà di due organizzazioni, l’Unione Africana e le Nazioni Unite. Spetta alla “comunità internazionale” farne buon uso. C’è stato un tempo in cui l’ibridismo era sinonimo di bastardaggine e di tara ma oggi, quando si parla di automobile ibrida, siamo al culmine del progresso.

L’UNAMID rappresenta la comunità internazionale nel suo insieme e non questo o quel paese membro.

Bisogna dunque rafforzare l’UNAMID, darle tutti i mezzi di cui ha bisogno e soprattutto questo accordo di pace. Gli uomini e le donne che servono la comunità internazionale su questo fronte non cessano di dimostrare la loro dedizione e abnegazione.

La cosa più importante è che la cooperazione fra i promotori dell’UNAMID, l’Unione Africana, e le Nazioni Unite, rimanga sincera. Il carattere ibrido dell’UNAMID, che è stato il vero visto d’ingresso delle Nazioni Unite in Darfur, non deve sembrare una semplice astuzia, un “cavallo di Troia”. L’Unione africana non deve essere solo uno “sleeping partner” ma deve svolgere pienamente il suo ruolo. Altrimenti la sconfitta è assicurata.

Il Sudan è il più grande paese dell’Africa. È alla cerniera di due mondi, l’Africa e il mondo arabo; confina con nove (9) paesi africani. Dall’indipendenza (1 gennaio 1956) si può dire che ha conosciuto la pace solo sporadicamente.

L’accordo globale di pace (CPA) che ha messo fine a oltre 20 anni di guerra civile fra Nord e Sud, ha suscitato tante speranze. Per la prima volta si intravvedeva un Sudan democratico.

Nel momento in cui la violenza sembra diminuire in Darfur, è preoccupante vedere che proprio ora nel Sud riprendono i massacri; la pace sarà forse il “masso di Sisifo” che, per la massima sfortuna dei sudanesi, ricade giù non appena si crede di aver raggiunto la vetta della montagna?

Il Sudan è uno. Bisogna che la comunità internazionale pensi “Sudan” e non più “Darfur e Sud”. In questa visione olistica, la Chiesa ha un ruolo preminente da svolgere in un Sudan pluralista, fra il Sud cristiano e animista e il Nord musulmano, dove c’è il Darfur.

Era il sogno di un grande sudanese, John Garang, il sogno di un nuovo Sudan in pace, in un’Africa in pace.








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