Una Chiesa in crescita: numeri e caratteristiche dell'evangelizzazione in Africa
Oggi il 17,5% della popolazione africana è costituito da cattolici. Negli ultimi decenni
la religione cattolica si è diffusa molto rapidamente nel continente, grazie anche
al forte impegno della Chiesa nell’assistenza sociale e nei programmi di sviluppo.
Per interrogarsi sulle nuove problematiche del continente e per riflettere sul cammino
percorso dal 1994, anno della Prima Assemblea Speciale dei Vescovi africani, i Padri
Sinodali si riuniranno in Vaticano dal 4 al 25 ottobre, in occasione del secondo Sinodo
africano, dedicato alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace. Sui principali
aspetti dell’evangelizzazione in Africa, Isabella Piro ha intervistato Padre
Giuseppe Cavallini, Coordinatore del Centro Comboni Multimedia. Ascolta l'intervista:
D. - Secondo
gli ultimi dati dell’Annuario Pontificio, nel periodo 2000-2007 i sacerdoti in Africa
sono aumentati del 27,6%. A cosa si deve questo incremento, secondo Lei?
R.
– Quando si guarda a questi dati, che pure sono veri, bisogna fare attenzione a non
considerarli in se stessi, ma a metterli in un quadro più ampio, che è quello per
il quale in Africa c’è in effetti una vitalità molto forte, che nasce dal senso profondo
di attaccamento al sacro esistente nelle società africane, tant’è che ancor più dei
sacerdoti, dei cristiani e della Chiesa cattolica, crescono la religione dell’Islam,
quella delle Chiese indipendenti, le sètte di vario genere che spuntano da ogni parte.
E quindi è proprio in questo quadro di sensibilità generale che dobbiamo guardare
questi dati. Nonostante ciò, certamente fa impressione ed è un dato molto positivo
il fatto che aumentino i sacerdoti che diventano un po’, ormai direi, il segno di
una comunità cristiana che, in generale, va assumendosi la propria responsabilità,
diventando davvero capace di guardare a se stessa. (…) Quindi, l’aumento del clero
anche locale di sicuro, in questo senso, sarà un grande trampolino di lancio per il
futuro della Chiesa in Africa.
D. – Qual è il rischio che alcune vocazioni
nascano come scelta di comodo, per sfuggire alla povertà, ad esempio?
R.
– Questo è certamente vero, lo sperimentiamo continuamente anche noi missionari; è
un po’ quello che succedeva fino ad una decina di anni fa nei nostri ambienti, in
Italia, in Europa, in genere. Il fatto che (in Africa ndr) le famiglie siano così
numerose, ci siano delle realtà demografiche in costante espansione e però che, con
questo, ci sia anche una crescita reale del numero di aderenti alla Chiesa, attraverso
il catecumenato ecc., certamente favorisce il fatto che in ogni famiglia, quasi, ci
sia da un lato il desiderio che qualche figlio diventi religioso e prenda questa strada,
dall’altro certamente è anche il desiderio di molti giovani che vedono aprirsi una
possibilità più garantita, per certi versi più facile, di costruirsi una vita migliore
di quella che magari vedono nei loro contesti. Tante volte, (questo desiderio ndr)
li spinge davvero su questa strada. E qui nascono, naturalmente, tutti i problemi
legati ad essa perché, se è vero che c’è molta generosità in molti sacerdoti giovani
- e questo non va ignorato – è anche vero che molti poi dimostrano che avevano imboccato
la strada con altre intenzioni.
D. - Rilevante anche, in Africa, l’aumento
dei fedeli battezzati, pari ad un +3,0 %. Qual è stata la causa di questo “trend positivo”,
possiamo dire?
R. – Io stesso, nella mia esperienza, vedo come da molti
anni, ma direi ancora adesso, ci sono intere regioni dell’Africa che sono molto aperte
al Vangelo, alla Parola di Dio, al desiderio di esprimere la propria fede anche, se
si vuole, in modo istituzionalizzato. E quindi ci sono dei catecumenati molto floridi
in molte parti dell’Africa e c’è molto desiderio soprattutto di cercare Dio, di metterlo
ancora al centro della propria vita. Da qui, certamente, nasce (questo trend positivo
ndr), insieme al fattore demografico, al fatto che la Chiesa sia già una grandissima
realtà con oltre 150milioni di “abitanti”, quindi c’è anche una crescita di fedeli
che è diventata un processo naturale, fisiologico, perché ogni anno nascono moltissimi
bambini anche nelle comunità cattoliche e che, automaticamente, entrano nella Chiesa.
D. - Dal punto di vista logistico, a Suo parere, l’Africa ha strutture
adeguate alla formazione ed al sostentamento dei religiosi?
R. – Questo
è un campo davvero critico perché ci sono ormai in quasi tutte le diocesi delle istituzioni,
dei seminari, dei centri particolari di formazione che, dal punto di vista strutturale,
soddisfano molte esigenze di questa crescita della Chiesa. Quindi direi che più che
l’assenza di strutture che aiutano l’adeguata formazione delle persone, quello che
manca forse è la preparazione, alle volte, di un sufficiente numero di formatori autoctoni,
di personale locale che davvero segua la formazione di questi giovani con amore, con
disinteresse, grande fede, con grande passione. Tra l’altro, non credo che siano le
istituzioni “gigantesche”, presenti da noi tradizionalmente, a garantire un futuro
di buona formazione, ma dovrebbero essere anche gli ambiti delle comunità cristiane,
quindi la crescita dei giovani nel proprio contesto ecclesiale, culturale, famigliare,
che danno l’impronta fondamentale alla formazione di un clero e di una Chiesa davvero
convinta, responsabile.
D. - Quali le linee-guida dell’evangelizzazione
in Africa?
R. – Come sappiamo, il primo Sinodo africano, oltre quindici
anni fa, aveva già offerto un quadro globale che era quello che parlava di ricostruire
una Chiesa in Africa intesa come grande famiglia, “la famiglia di Dio”, come era stata
definita. Al centro di essa si era posto, in modo fortissimo, il tema dell’inculturazione,
cioè la capacità di trovare le espressioni della tradizione culturale di ogni popolo,
di ogni gruppo, e quindi anche di ogni Chiesa che meglio esprimessero lo stesso Vangelo.
Direi che in questi anni, questo grande tema credo debba essere recuperato, speriamo
venga fatto nel secondo Sinodo che si celebrerà il prossimo ottobre e che l’inculturazione
venga rimessa al centro perché da essa nasce un’identità autentica per le comunità
così estese e così numericamente favorevoli che ci sono oggi in Africa. L’altro grande
tema dell’evangelizzazione è certamente è quello del continuare il cammino verso l’autosufficienza,
in termini economici, ma non soltanto delle Chiese locali, ma anche in termini ministeriali
– come per altro sta succedendo – e in termini di missionarietà. Anche qui, l’Africa
sta esprimendosi molto bene perché davvero questo interscambio di personale, di sacerdoti,
di religiosi va aumentando sempre di più. L’ultimo elemento è quello del dialogo con
le altre realtà religiose perché dovremmo essere noi quelli che promuovono questa
realtà secondo lo spirito del Concilio Vaticano II, sia al livello ecumenico che al
livello interreligioso, diventando poi così davvero agenti di trasformazione sociale
perché un grande ruolo giocato dalla Chiesa fino ad oggi e che certamente anche in
futuro sarà altrettanto importante è proprio quello di applicare la presenza di fede
alla trasformazione dell’uomo e della società.
D. – Abbiamo parlato
di inculturazione, ma c’è sempre anche l’altro fronte, quello delle culture tradizionali
africane: come conciliare questi due aspetti?
R. – Io credo che si concilino
in modo perfetto, perché – almeno nell’esperienza mia, di tanti miei amici e confratelli
e nell’incontro proprio con le Chiese locali – laddove si è saputo operare in modo
abbastanza oculato e saggio, direi, l’introduzione, a tutti i livelli, di elementi
di espressione tradizionale anche sul piano religioso, della sensibilità per il sacro,
l’inculturazione è avvenuta secondo un processo quasi spontaneo ed è dove le Chiese
hanno raggiunto il maggior grado di responsabilità, di capacità di gestirsi, anche
nel passaggio graduale a superare il grande rischio, per altro molto presente, di
“clericalizzare” un po’ l’ambiente ecclesiale. Mentre, invece, inculturare significa
promuovere, ad esempio, la responsabilità dei laici, dei capi locali che sono molto
apprezzati, molto ascoltati anche nell’ambito tradizionale. Anche nell’ambito della
formazione e dell’educazione l’inculturazione è la chiave per dare “un volto africano
alla Chiesa in Africa”, come diceva Paolo VI.
D. – Alla luce di quello
che abbiamo detto, qual è il contributo delle missioni?
R. – (…) In
base alla mia esperienza, probabilmente ci verrà chiesto di fare un’opera di autoconversione
ancor più grande di quella che siamo stati capaci di operare finora. Perché secondo
me l’Africa sta vivendo la stagione della propria adolescenza, quindi è in pieno fermento
ed è alla ricerca di un’identità propria che la mette automaticamente quasi in conflitto
molto spesso con le modalità tradizionali di vedere gestita la propria crescita, ovvero
quella operata di più dall’esterno. È una sfida grande giocare il ruolo di Giovanni
Battista, in questo tempo, cioè diminuire per lasciare davvero spazio a loro, alla
localizzazione, al clero autoctono, ai laici ormai impegnati, molto capaci e convinti
nella propria fede. Quindi, (il nostro contributo ndr) è quello di riqualificare un
po’il nostro impegno, la nostra presenza come missionari, preparandoci di più, specializzandoci
non nella Pastorale “ordinaria” diciamo, ma in quelle strutture in cui è importante
esserci per dare garanzia di preparare davvero bene quelli che saranno i protagonisti
futuri della continua crescita, della maturazione di questa Chiesa in futuro.