2009-09-21 17:07:53

Una Chiesa in crescita: numeri e caratteristiche dell'evangelizzazione in Africa


Oggi il 17,5% della popolazione africana è costituito da cattolici. Negli ultimi decenni la religione cattolica si è diffusa molto rapidamente nel continente, grazie anche al forte impegno della Chiesa nell’assistenza sociale e nei programmi di sviluppo. Per interrogarsi sulle nuove problematiche del continente e per riflettere sul cammino percorso dal 1994, anno della Prima Assemblea Speciale dei Vescovi africani, i Padri Sinodali si riuniranno in Vaticano dal 4 al 25 ottobre, in occasione del secondo Sinodo africano, dedicato alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace. Sui principali aspetti dell’evangelizzazione in Africa, Isabella Piro ha intervistato Padre Giuseppe Cavallini, Coordinatore del Centro Comboni Multimedia. Ascolta l'intervista: RealAudioMP3

D. - Secondo gli ultimi dati dell’Annuario Pontificio, nel periodo 2000-2007 i sacerdoti in Africa sono aumentati del 27,6%. A cosa si deve questo incremento, secondo Lei?

R. – Quando si guarda a questi dati, che pure sono veri, bisogna fare attenzione a non considerarli in se stessi, ma a metterli in un quadro più ampio, che è quello per il quale in Africa c’è in effetti una vitalità molto forte, che nasce dal senso profondo di attaccamento al sacro esistente nelle società africane, tant’è che ancor più dei sacerdoti, dei cristiani e della Chiesa cattolica, crescono la religione dell’Islam, quella delle Chiese indipendenti, le sètte di vario genere che spuntano da ogni parte. E quindi è proprio in questo quadro di sensibilità generale che dobbiamo guardare questi dati. Nonostante ciò, certamente fa impressione ed è un dato molto positivo il fatto che aumentino i sacerdoti che diventano un po’, ormai direi, il segno di una comunità cristiana che, in generale, va assumendosi la propria responsabilità, diventando davvero capace di guardare a se stessa. (…) Quindi, l’aumento del clero anche locale di sicuro, in questo senso, sarà un grande trampolino di lancio per il futuro della Chiesa in Africa.

D. – Qual è il rischio che alcune vocazioni nascano come scelta di comodo, per sfuggire alla povertà, ad esempio?

R. – Questo è certamente vero, lo sperimentiamo continuamente anche noi missionari; è un po’ quello che succedeva fino ad una decina di anni fa nei nostri ambienti, in Italia, in Europa, in genere. Il fatto che (in Africa ndr) le famiglie siano così numerose, ci siano delle realtà demografiche in costante espansione e però che, con questo, ci sia anche una crescita reale del numero di aderenti alla Chiesa, attraverso il catecumenato ecc., certamente favorisce il fatto che in ogni famiglia, quasi, ci sia da un lato il desiderio che qualche figlio diventi religioso e prenda questa strada, dall’altro certamente è anche il desiderio di molti giovani che vedono aprirsi una possibilità più garantita, per certi versi più facile, di costruirsi una vita migliore di quella che magari vedono nei loro contesti. Tante volte, (questo desiderio ndr) li spinge davvero su questa strada. E qui nascono, naturalmente, tutti i problemi legati ad essa perché, se è vero che c’è molta generosità in molti sacerdoti giovani - e questo non va ignorato – è anche vero che molti poi dimostrano che avevano imboccato la strada con altre intenzioni.

D. - Rilevante anche, in Africa, l’aumento dei fedeli battezzati, pari ad un +3,0 %. Qual è stata la causa di questo “trend positivo”, possiamo dire?

R. – Io stesso, nella mia esperienza, vedo come da molti anni, ma direi ancora adesso, ci sono intere regioni dell’Africa che sono molto aperte al Vangelo, alla Parola di Dio, al desiderio di esprimere la propria fede anche, se si vuole, in modo istituzionalizzato. E quindi ci sono dei catecumenati molto floridi in molte parti dell’Africa e c’è molto desiderio soprattutto di cercare Dio, di metterlo ancora al centro della propria vita. Da qui, certamente, nasce (questo trend positivo ndr), insieme al fattore demografico, al fatto che la Chiesa sia già una grandissima realtà con oltre 150milioni di “abitanti”, quindi c’è anche una crescita di fedeli che è diventata un processo naturale, fisiologico, perché ogni anno nascono moltissimi bambini anche nelle comunità cattoliche e che, automaticamente, entrano nella Chiesa.

D. - Dal punto di vista logistico, a Suo parere, l’Africa ha strutture adeguate alla formazione ed al sostentamento dei religiosi?

R. – Questo è un campo davvero critico perché ci sono ormai in quasi tutte le diocesi delle istituzioni, dei seminari, dei centri particolari di formazione che, dal punto di vista strutturale, soddisfano molte esigenze di questa crescita della Chiesa. Quindi direi che più che l’assenza di strutture che aiutano l’adeguata formazione delle persone, quello che manca forse è la preparazione, alle volte, di un sufficiente numero di formatori autoctoni, di personale locale che davvero segua la formazione di questi giovani con amore, con disinteresse, grande fede, con grande passione. Tra l’altro, non credo che siano le istituzioni “gigantesche”, presenti da noi tradizionalmente, a garantire un futuro di buona formazione, ma dovrebbero essere anche gli ambiti delle comunità cristiane, quindi la crescita dei giovani nel proprio contesto ecclesiale, culturale, famigliare, che danno l’impronta fondamentale alla formazione di un clero e di una Chiesa davvero convinta, responsabile.

D. - Quali le linee-guida dell’evangelizzazione in Africa?

R. – Come sappiamo, il primo Sinodo africano, oltre quindici anni fa, aveva già offerto un quadro globale che era quello che parlava di ricostruire una Chiesa in Africa intesa come grande famiglia, “la famiglia di Dio”, come era stata definita. Al centro di essa si era posto, in modo fortissimo, il tema dell’inculturazione, cioè la capacità di trovare le espressioni della tradizione culturale di ogni popolo, di ogni gruppo, e quindi anche di ogni Chiesa che meglio esprimessero lo stesso Vangelo. Direi che in questi anni, questo grande tema credo debba essere recuperato, speriamo venga fatto nel secondo Sinodo che si celebrerà il prossimo ottobre e che l’inculturazione venga rimessa al centro perché da essa nasce un’identità autentica per le comunità così estese e così numericamente favorevoli che ci sono oggi in Africa. L’altro grande tema dell’evangelizzazione è certamente è quello del continuare il cammino verso l’autosufficienza, in termini economici, ma non soltanto delle Chiese locali, ma anche in termini ministeriali – come per altro sta succedendo – e in termini di missionarietà. Anche qui, l’Africa sta esprimendosi molto bene perché davvero questo interscambio di personale, di sacerdoti, di religiosi va aumentando sempre di più. L’ultimo elemento è quello del dialogo con le altre realtà religiose perché dovremmo essere noi quelli che promuovono questa realtà secondo lo spirito del Concilio Vaticano II, sia al livello ecumenico che al livello interreligioso, diventando poi così davvero agenti di trasformazione sociale perché un grande ruolo giocato dalla Chiesa fino ad oggi e che certamente anche in futuro sarà altrettanto importante è proprio quello di applicare la presenza di fede alla trasformazione dell’uomo e della società.

D. – Abbiamo parlato di inculturazione, ma c’è sempre anche l’altro fronte, quello delle culture tradizionali africane: come conciliare questi due aspetti?

R. – Io credo che si concilino in modo perfetto, perché – almeno nell’esperienza mia, di tanti miei amici e confratelli e nell’incontro proprio con le Chiese locali – laddove si è saputo operare in modo abbastanza oculato e saggio, direi, l’introduzione, a tutti i livelli, di elementi di espressione tradizionale anche sul piano religioso, della sensibilità per il sacro, l’inculturazione è avvenuta secondo un processo quasi spontaneo ed è dove le Chiese hanno raggiunto il maggior grado di responsabilità, di capacità di gestirsi, anche nel passaggio graduale a superare il grande rischio, per altro molto presente, di “clericalizzare” un po’ l’ambiente ecclesiale. Mentre, invece, inculturare significa promuovere, ad esempio, la responsabilità dei laici, dei capi locali che sono molto apprezzati, molto ascoltati anche nell’ambito tradizionale. Anche nell’ambito della formazione e dell’educazione l’inculturazione è la chiave per dare “un volto africano alla Chiesa in Africa”, come diceva Paolo VI.

D. – Alla luce di quello che abbiamo detto, qual è il contributo delle missioni?

R. – (…) In base alla mia esperienza, probabilmente ci verrà chiesto di fare un’opera di autoconversione ancor più grande di quella che siamo stati capaci di operare finora. Perché secondo me l’Africa sta vivendo la stagione della propria adolescenza, quindi è in pieno fermento ed è alla ricerca di un’identità propria che la mette automaticamente quasi in conflitto molto spesso con le modalità tradizionali di vedere gestita la propria crescita, ovvero quella operata di più dall’esterno. È una sfida grande giocare il ruolo di Giovanni Battista, in questo tempo, cioè diminuire per lasciare davvero spazio a loro, alla localizzazione, al clero autoctono, ai laici ormai impegnati, molto capaci e convinti nella propria fede. Quindi, (il nostro contributo ndr) è quello di riqualificare un po’il nostro impegno, la nostra presenza come missionari, preparandoci di più, specializzandoci non nella Pastorale “ordinaria” diciamo, ma in quelle strutture in cui è importante esserci per dare garanzia di preparare davvero bene quelli che saranno i protagonisti futuri della continua crescita, della maturazione di questa Chiesa in futuro.








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