L'impoverimento morale alla base dei drammi africani. L'importanza dell'etica nei
rapporti interni e internazionali
Petrolio, gas, coltan, tanzanite, diamanti, oro: sono solo alcune delle risorse di
cui è ricchissima l’Africa. Purtroppo, però, si tratta di risorse spesso sfruttate
da multinazionali straniere, che schiacciano le imprese locali, stravolgendo il quadro
economico africano già, di per sé, instabile e complesso. Su questo tema rifletterà
il secondo Sinodo dei Vescovi per l’Africa, che si svolgerà in Vaticano dal 4 al 25
ottobre, sul tema della riconciliazione, della giustizia e della pace. A quindici
anni dalla prima Assemblea Speciale, i vescovi tornano quindi a riunirsi per riflettere
sull’Africa. Sulle conseguenze dello sfruttamento delle risorse africane da parte
delle multinazionali, Silvia Koch ha intervistato Sergio Marelli, Direttore
Generale della FOCSIV-Volontari nel mondo. Ascolta l'intervista:
D. - Qual
è la responsabilità specifica delle imprese straniere che sfruttano le risorse africane?
R.
- È una responsabilità enorme. Non a caso, anche nell’Enciclica “Caritas in Veritate”,
Benedetto XVI ha esplicitamente citato gli impatti negativi che le multinazionali
hanno sullo sviluppo delle popolazioni locali, a causa del loro agire violando continuamente
i diritti umani e avendo come unico obiettivo quello della massimizzazione del proprio
profitto. Inoltre, molte aziende straniere sfruttano senza criterio le grandi risorse
naturali africane, utilizzando metodologie ecologicamente non compatibili.
D.
- Nell’ultima Enciclica, il Pontefice fa riferimento proprio alla necessità di ricercare
nuovi paradigmi di sviluppo, attraverso il coinvolgimento delle istituzioni politiche
locali e della società civile dei paesi in questione. La cooperazione internazionale
sta andando nella medesima direzione?
R. - Sottolineo la mia completa
condivisione delle parole di Benedetto XVI. Fondare un nuovo modello di sviluppo è
sicuramente il primo passo da compiere per combattere la recessione in atto e per
evitare l’insorgere di nuove crisi. Il mondo delle Ong ha da tempo compreso la necessità
di investire risorse anche nelle iniziative di advocacy, da compiere in collaborazione
con la società civile mondiale e finalizzate a modificare le politiche delle istituzioni
internazionali e dei governi donatori. Occorre quindi coinvolgere i soggetti locali
nella ricerca di soluzioni specifiche, che puntino allo sviluppo integrale della persona,
abbandonando definitivamente l’ambizione alla massimizzazione del profitto individuale.
D.
- Quale influenza ha la dimensione etica sui drammi che affliggono il continente africano?
R.
- Io credo fermamente nella responsabilità individuale e nella moralità della singola
persona. Sono questi due presupposti indispensabili alla creazione di qualunque modello
di sviluppo, che si voglia improntato all’etica, alla giustizia e alla pace. L’immoralità
delle persone si trasmette sul cattivo funzionamento delle istituzioni e delle organizzazioni.
Ad esempio, se il fenomeno della corruzione è molto diffuso, a vari livelli, in Africa,
significa che ci sono a monte degli individui che ricorrono a questa pratica per gestire
gli affari economici e politici. Ricordo che anche Giovanni Paolo II aveva individuato
nella lotta alle “strutture di peccato”, una delle grandi finalità della giustizia
perseguita dal cristiano. Le “strutture di peccato” sfruttano la persona e calpestano
la sua dignità, mirando unicamente a massimizzare i propri guadagni. Io penso che
oggi ci sia ancora un grande bisogno di combattere i fenomeni di illegalità finanziaria,
proprio ai fini della crescita delle nazioni svantaggiate.
D. - Ecco,
la corruzione diceva. Ci spiega in quale modo questa pratica illegale di gestione
dei fondi si inserisce nelle attività di cooperazione e quali sono le altre difficoltà
che le Ong incontrano sul territorio?
R. - Esiste un dato significativo
che può aiutare a comprendere il meccanismo della corruzione: a fronte dei 107 miliardi
di dollari che l’insieme dei paesi donatori trasferisce nei paesi del sud del mondo,
il flusso di risorse economiche che annualmente viene trasferito dalle economie svantaggiate
alle nazioni ricche è oggi pari a 800 miliardi di dollari, ovvero 8 volte tanto. Come
è possibile questo? Attraverso i cosiddetti paradisi fiscali, l’evasione dalle tasse
e i conti presso le banche che garantiscono il segreto bancario. Questi istituti finanziari
possono accogliere, tra le altre, le ingenti ricchezze di quei pochi africani fortunati,
che si sono arricchiti proprio sfruttando questo modello perverso di sviluppo. Dunque,
anche le élites locali hanno la possibilità di sfruttare questi meccanismi illeciti,
diffusi a livello internazionale ma evidentemente sostenuti da elementi forti delle
economie sviluppate. A questo proposito, mi stupisce molto che l’Italia non abbia
ancora sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta alla Corruzione.
Tornando alle difficoltà che le Ong incontrano sul campo, quindi, i soggetti intermediari
che gestiscono gli aiuti rappresentano sicuramente un’aggravante. Più sono i passaggi
intermedi, più aumenta il rischio che i capitali si disperdano, vengano riciclati
o comunque gestiti in maniera non adeguata a garantire il massimo beneficio per i
soggetti destinatari. Ancora, lo stato di miseria che affligge la popolazione rappresenta
un altro elemento che ritarda le attività di sviluppo. Questa povertà dalle dimensioni
drammatiche non dipende, a mio avviso, dal comportamento delle comunità colpite; è
piuttosto l’effetto di politiche di cooperazione erronee, di meccanismi commerciali
distorti e soprattutto, appunto, del perseguimento di obiettivi “altri” rispetto allo
sviluppo integrale degli uomini. Le grandi questioni del continente africano vengono
ancora affrontate con strategie che rispondono a quella stessa logica coloniale, di
considerare l’Africa come un bacino da cui attingere per arricchire il resto del mondo.
Un bacino che dispone di risorse naturali, di produzioni agricole e di mercati locali.
La politica internazionale, al contrario, dovrebbe essere finalizzata proprio al bene
comune che – come ricordato nell’Enciclica “Caritas in Veritate” – non può essere
delimitato a una parte della popolazione mondiale, ma necessariamente deve essere
esteso a tutti gli uomini e le donne del pianeta.