2009-09-21 17:08:00

L'impoverimento morale alla base dei drammi africani. L'importanza dell'etica nei rapporti interni e internazionali


Petrolio, gas, coltan, tanzanite, diamanti, oro: sono solo alcune delle risorse di cui è ricchissima l’Africa. Purtroppo, però, si tratta di risorse spesso sfruttate da multinazionali straniere, che schiacciano le imprese locali, stravolgendo il quadro economico africano già, di per sé, instabile e complesso. Su questo tema rifletterà il secondo Sinodo dei Vescovi per l’Africa, che si svolgerà in Vaticano dal 4 al 25 ottobre, sul tema della riconciliazione, della giustizia e della pace. A quindici anni dalla prima Assemblea Speciale, i vescovi tornano quindi a riunirsi per riflettere sull’Africa. Sulle conseguenze dello sfruttamento delle risorse africane da parte delle multinazionali, Silvia Koch ha intervistato Sergio Marelli, Direttore Generale della FOCSIV-Volontari nel mondo. Ascolta l'intervista: RealAudioMP3

D. - Qual è la responsabilità specifica delle imprese straniere che sfruttano le risorse africane?

R. - È una responsabilità enorme. Non a caso, anche nell’Enciclica “Caritas in Veritate”, Benedetto XVI ha esplicitamente citato gli impatti negativi che le multinazionali hanno sullo sviluppo delle popolazioni locali, a causa del loro agire violando continuamente i diritti umani e avendo come unico obiettivo quello della massimizzazione del proprio profitto. Inoltre, molte aziende straniere sfruttano senza criterio le grandi risorse naturali africane, utilizzando metodologie ecologicamente non compatibili.

D. - Nell’ultima Enciclica, il Pontefice fa riferimento proprio alla necessità di ricercare nuovi paradigmi di sviluppo, attraverso il coinvolgimento delle istituzioni politiche locali e della società civile dei paesi in questione. La cooperazione internazionale sta andando nella medesima direzione?

R. - Sottolineo la mia completa condivisione delle parole di Benedetto XVI. Fondare un nuovo modello di sviluppo è sicuramente il primo passo da compiere per combattere la recessione in atto e per evitare l’insorgere di nuove crisi. Il mondo delle Ong ha da tempo compreso la necessità di investire risorse anche nelle iniziative di advocacy, da compiere in collaborazione con la società civile mondiale e finalizzate a modificare le politiche delle istituzioni internazionali e dei governi donatori. Occorre quindi coinvolgere i soggetti locali nella ricerca di soluzioni specifiche, che puntino allo sviluppo integrale della persona, abbandonando definitivamente l’ambizione alla massimizzazione del profitto individuale.

D. - Quale influenza ha la dimensione etica sui drammi che affliggono il continente africano?

R. - Io credo fermamente nella responsabilità individuale e nella moralità della singola persona. Sono questi due presupposti indispensabili alla creazione di qualunque modello di sviluppo, che si voglia improntato all’etica, alla giustizia e alla pace. L’immoralità delle persone si trasmette sul cattivo funzionamento delle istituzioni e delle organizzazioni. Ad esempio, se il fenomeno della corruzione è molto diffuso, a vari livelli, in Africa, significa che ci sono a monte degli individui che ricorrono a questa pratica per gestire gli affari economici e politici. Ricordo che anche Giovanni Paolo II aveva individuato nella lotta alle “strutture di peccato”, una delle grandi finalità della giustizia perseguita dal cristiano. Le “strutture di peccato” sfruttano la persona e calpestano la sua dignità, mirando unicamente a massimizzare i propri guadagni. Io penso che oggi ci sia ancora un grande bisogno di combattere i fenomeni di illegalità finanziaria, proprio ai fini della crescita delle nazioni svantaggiate.

D. - Ecco, la corruzione diceva. Ci spiega in quale modo questa pratica illegale di gestione dei fondi si inserisce nelle attività di cooperazione e quali sono le altre difficoltà che le Ong incontrano sul territorio?

R. - Esiste un dato significativo che può aiutare a comprendere il meccanismo della corruzione: a fronte dei 107 miliardi di dollari che l’insieme dei paesi donatori trasferisce nei paesi del sud del mondo, il flusso di risorse economiche che annualmente viene trasferito dalle economie svantaggiate alle nazioni ricche è oggi pari a 800 miliardi di dollari, ovvero 8 volte tanto. Come è possibile questo? Attraverso i cosiddetti paradisi fiscali, l’evasione dalle tasse e i conti presso le banche che garantiscono il segreto bancario. Questi istituti finanziari possono accogliere, tra le altre, le ingenti ricchezze di quei pochi africani fortunati, che si sono arricchiti proprio sfruttando questo modello perverso di sviluppo. Dunque, anche le élites locali hanno la possibilità di sfruttare questi meccanismi illeciti, diffusi a livello internazionale ma evidentemente sostenuti da elementi forti delle economie sviluppate. A questo proposito, mi stupisce molto che l’Italia non abbia ancora sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta alla Corruzione. Tornando alle difficoltà che le Ong incontrano sul campo, quindi, i soggetti intermediari che gestiscono gli aiuti rappresentano sicuramente un’aggravante. Più sono i passaggi intermedi, più aumenta il rischio che i capitali si disperdano, vengano riciclati o comunque gestiti in maniera non adeguata a garantire il massimo beneficio per i soggetti destinatari. Ancora, lo stato di miseria che affligge la popolazione rappresenta un altro elemento che ritarda le attività di sviluppo. Questa povertà dalle dimensioni drammatiche non dipende, a mio avviso, dal comportamento delle comunità colpite; è piuttosto l’effetto di politiche di cooperazione erronee, di meccanismi commerciali distorti e soprattutto, appunto, del perseguimento di obiettivi “altri” rispetto allo sviluppo integrale degli uomini. Le grandi questioni del continente africano vengono ancora affrontate con strategie che rispondono a quella stessa logica coloniale, di considerare l’Africa come un bacino da cui attingere per arricchire il resto del mondo. Un bacino che dispone di risorse naturali, di produzioni agricole e di mercati locali. La politica internazionale, al contrario, dovrebbe essere finalizzata proprio al bene comune che – come ricordato nell’Enciclica “Caritas in Veritate” – non può essere delimitato a una parte della popolazione mondiale, ma necessariamente deve essere esteso a tutti gli uomini e le donne del pianeta.








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