L'African Jesuit AIDS Network: un sostegno importante per le popolazioni africane
colpite dal dramma dell'AIDS
“Nella loro formazione, gli operatori sanitari si impegnano, con il giuramento di
Ippocrate, a proteggere la vita. I cristiani del corpo medico in Africa hanno dato
il tono con competenza, coraggio e a volte eroismo nella protezione della vita dagli
inizi (rifiutando l’aborto) al suo termine (rifiutando l’eutanasia), nell’assistenza
dedita alle vittime dell’HIV/AIDS”. È quanto di legge nell’Istrumentum Laboris, il
documento di lavoro dell’imminente Sinodo dei Vescovi per l’Africa, che si terrà in
Vaticano dal 4 al 25 ottobre, sui temi della riconciliazione, della giustizia e della
pace. Si tratta della seconda Assemblea Speciale dei vescovi dedicata a questo continente,
dopo quella del 1994. Sull’impegno della Chiesa a favore delle popolazioni africane
colpite dal dramma dell’AIDS, Philippa Hitchen ha intervistato Padre Michael
F. Czerny, direttore dell’African Jesuit AIDS Network (AJAN). Ascolta l'intervista
in lingua originale inglese, nell'ambito del servizio di Philippa Hitchen:
D. - L’AJAN
compie sette anni: quali risultati sono stati conseguiti in questi sette anni di lavoro?
R.
- La rete è stata istituita per incoraggiare tutti i gesuiti che lavorano nell’Africa
sub-sahariana (una trentina di Paesi) a dedicare parte del loro ministero al problema
dell’HIV/AIDS. Si tratta di una missione ampia, non di un compito specifico. A sette
anni di distanza, direi che un risultato positivo della nostra missione è dato dall’elenco
dei nomi e delle iniziative: sono almeno 200 i Gesuiti impegnati in vario modo su
questo fronte. Dobbiamo essere contenti che la Compagnia di Gesù sia seriamente impegnata
in questa lunga battaglia.
D. - Sono persone che svolgono questo apostolato
a tempo pieno?
R. - No, non proprio. Si tratta di Gesuiti che hanno
il loro lavoro normale: parroci, insegnanti, direttori spirituali, formatori, superiori,
novizi, Gesuiti in ogni posizione che hanno integrato la battaglia contro l’Aids nel
loro lavoro ordinario. Poi ci si sono uno, due o tre dozzine che sono attivamente
e pubblicamente impegnate nel senso che intende lei. Quindi abbiamo due tipologie
di impegno, ma devo dire che la nostra priorità era di coinvolgere tutti a vario
titolo (…).
D. - Parliamo dei principali progetti dell’Ajan: che tipo
di lavoro cercate di svolgere per vincere questa battaglia contro la malattia?
R.
- Anche qui dovrei mettere da parte la parola “principali”, perché non abbiamo una
politica specifica (…), quindi ogni esempio che le darò sarà diverso (…). In Togo,
ad esempio, c’è un centro in un quartiere povero al quale le persone si rivolgono
per tutta una serie di servizi, di cui l’assistenza alle persone affette dall’Hiv
è solo una parte. La sua principale attività è di carattere educativo, quindi le
persone non devono dire che vengono per l’Aids. (…). In Burundi, invece, abbiamo qualcosa
di molto diverso: non esiste alcun centro come tale, c’è un piccolo ufficio dal quale
il personale esce per raggiungere una decina di parrocchie remote e praticamente inaccessibili
e questo programma viene incontro ai bisogni delle parrocchie. Come vede, è un servizio
completamente decentralizzato, anche se la gente viene all’ufficio centrale per le
cure mediche, la maggior parte del lavoro è svolto da un camion che gira da una parrocchia
all’altra.
D. - Quindi la chiave di tutto è di rispondere alle diverse
esigenze di ciascuna comunità parrocchiale e villaggio?
R. - Ci sono
le scuole ad esempio. Ad Addis Abeba c’è un bellissimo programma coordinato dalla
cappellania universitaria: non si vede nulla, ma si coinvolgono gli studenti universitari
che hanno trovato delle persone sieropositive con cui lavorare e che si sentono, diciamo
così, “salvate”, perché adesso hanno qualcosa da fare e hanno trovato un modo per
mantenersi, senza essere rinchiusi e marginalizzati, come lo sono molte persone affette
dall’Aids.
D. - Quali sono a suo avviso le principali sfide in questo
lavoro? Lei parla di una grande varietà di progetti e situazioni diverse: qual’è per
voi la difficoltà maggiore su cui state ancora lavorando?
R. - Questo
è un nuovo apostolato per la Chiesa. 25 anni fa non esisteva e stiamo ancora scoprendo
diversi aspetti di un problema che è straordinariamente complesso. La difficoltà è
che all’inizio e per un certo tempo è stato al centro dell’attenzione pubblica internazionale
e le Nazioni Unite hanno adottato misure di alto profilo, ma ora sta progressivamente
passando in secondo piano: se guardate i telegiornali vedrete molto meno sull’Aids
quest’anno rispetto a cinque anni fa.
D. - Questo è perché stiamo facendo
progressi o questa è una lettura sbagliata?
R. - È una lettura forse
corretta per l’Europa e l’America, ma è imprecisa se parliamo dell’Africa. Uno dei
problemi è proprio questo: l’idea che ci siamo fatti si è formata qui, ma lì non è
la stessa cosa. Quindi la sfida è di fissare un impegno a lungo termine. Noi diciamo
che è un progetto che richiederà 100 anni: ci vorrà un secolo per affrontare seriamente
il problema. Dovremo lavorare per il tempo che sarà necessario, in base alle esigenze
delle persone che aiutiamo e dei migliaia, milioni che ancora non aiutiamo. È un lavoro
che richiederà generazioni.
D. - Quando parliamo di successo nella lotta
all’Aids forse voi intendete la parola successo in modo molto diverso. Per il mondo
secolare successo è permettere a tutti i malati di accedere agli anti-retrovirali
…
R. - Non è un obiettivo sbagliato, ma solo il 10 % delle persone affette
possono sempre accedere agli antiretrovirali. Quindi esiste un 90% di sieropositivi,
che hanno molte esigenze, potrebbero essere un pericolo per gli altri e hanno bisogno
di un aiuto pastorale, umano, materiale e di cure e dei quali i produttori degli antiretrovirali,
i finanziatori di questi programmi di alto profilo non si interessano. Quindi, se
noi diciamo che va bene che il 10% sia preso in cura dal sistema medico-sanitario,
che dire dell’altro 90%?
D. - Queste persone non sono abbastanza ammalate
per potere assumere antiretrovirali?
R. - Non sono abbastanza ammalate,
o lo sono troppo, oppure non hanno abbastanza cibo per potere prendere questi medicinali,
o, ancora, non possono permettersi il biglietto per andare in clinica o non lo sanno,
o forse sarebbero uccise dalle loro famiglie se facessero una cosa del genere …
D.
- Quindi sta dicendo che la vera sfida è raggiungere queste comunità?
R.
- Non è una comunità, ma migliaia di migliaia di persone e quello che è incoraggiante
è la risposta delle nostre Chiese locali: spesso non stiamo cercando arrivare a queste
persone, ma siamo già lì (…). Quindi non siamo seduti a pensare che cosa possiamo
fare e dove dobbiamo andare per portare il nostro aiuto. No, questa è la nostra gente,
i nostri parrocchiani, studenti, famiglie con cui dobbiamo continuare a stare e a
cui dobbiamo dare la forte sensazione che anche se sono sieropositivi, o colpiti in
qualche modo dall’Aids, sono membri a pieno titolo della famiglia di Dio e della comunità
cristiana e integrate nelle loro famiglie di origine, cosa che non è sempre facile.
D. - Come diceva, l’impegno della Chiesa in questo campo è straordinario
grazie alla rete di parrocchie e comunità che sono sempre esistite lì. Eppure, recentemente
abbiamo visto un attacco violento contro la politica della Chiesa sull’Aids durante
il viaggio del Papa in Africa, che è stata definita irrealistica e inefficace. È sorpreso?
R.
- No, veramente no. Quello che mi ha sorpreso è il grande polverone sollevato, perché
né la domanda, né la risposta erano molto nuove. (…). La domanda sembrava riguardare
l’Africa, ma in realtà era una polemica tutta occidentale: era un attacco della cultura
occidentale e globale a un approccio sereno della Chiesa alla sessualità e sono felice
di potere dire che su una cosa importante come la sessualità non cambieremo tale approccio
per seguire un trend culturale. Quando il Papa chiede di “umanizzare la sessualità”
non vedo come una persona di buona volontà non possa convenire sul fatto che c’è bisogno
di questo e che questo è quello che vogliamo (…).
D. - Ma qual è il
motivo di questo rifiuto? La questione riguarda chiaramente l’uso dei preservativi
come mezzo di prevenzione e nella visione del mondo secolare tutto il dibattito sembra
ruotare intorno a questo punto…
R. - Non penso ci sia molto dibattito
sull’Aids nel mondo secolare: come ho già detto, non è più una questione calda come
una volta. I grandi programmi continuano e mi domando se sopravvivranno all’attuale
crisi economica, ma a parte questo, ad eccezione di qualche occasionale conferenza
scientifica, non penso ci sia molto interesse. Sicuramente non vedo molti articoli
della stampa sull’argomento. Quindi non dobbiamo pensare che ci sia un vivo dibattito
in cui si è intromesso il Santo Padre: era già un problema passato in sordina. Il
preservativo è un oggetto concreto e un simbolo, è quindi facile far ruotare l’intera
questione attorno a questo punto. Ma in Africa non è certamente questo il vero problema
e la mia impressione è che, anche in Occidente, la vivace reazione dei media non riguarda
tanto il preservativo in sé, quanto piuttosto la possibilità che sulla sessualità
ci siano dei sì e dei no e che essa non sia solo una questione di consensualità: ci
sono cose che una persona dovrebbe fare e altre che non dovrebbe fare e ci sono persone
con cui uno può, o non può. [L’idea che] la cultura, la società, la religione o la
famiglia possano avere voce in capitolo e che non sia solo una questione di scelte
personali è ritenuta inaccettabile. Questa è la vera reazione che il Papa ha scatenato
e penso che il dibattito continuerà e tornerà. Non so come andrà a finire, ma so che
la posizione [del Santo Padre] in Africa è molto apprezzata, perché coincide, se non
con il comportamento reale di ciascuno, con la consapevolezza che questo è il tipo
di comunità in cui vogliamo vivere (…)..
D. - Come mai è così difficile
fare accettare questo punto di vista? Cos’altro potete fare per cercare di meglio
promuovere questo approccio integrale a lungo termine di cui lei parla?
R.
- (…) Ritengo che la Chiesa possa proporre una nuova catechesi sulla sessualità basata
su queste semplici, ma illuminanti parole del Santo Padre sull’aereo [in occasione
del viaggio in Africa]: “l’umanizzazione della sessualità” (…) e che la Chiesa e altre
istanze culturali, morali e religiose hanno qualcosa di importante da dire su questo.
Penso che se noi potessimo trovare un modo per fare questo ne beneficerebbe l’intera
società. Altrimenti lasceremmo ai pubblicitari e ai media, in particolare a quelli
di intrattenimento, di fissare standard sempre più bassi di divertimento e provocazione,
ma chiamare questa umanizzazione della sessualità è semplicemente falso.
D.
- Quali le vostre speranze e le vostre ambizioni per i prossimi sette anni?
R.
- La mia più grande speranza sembrerà molto modesta e conservatrice: spero che possiamo
continuare a coinvolgere più Gesuiti. Se ce ne sono 300 adesso esistono altri mille
da coinvolgere. Quindi ci sono molte opportunità per i Gesuiti in Africa di fare
ciascuno qualcosa per l’Aids e sono molto eccitato alla prospettiva di vedere i nuovi
progetti che verranno (…) . Spero molto che in futuro l’apostolato accanto ai malati
di Aids sarà incorporato in modo serio e competente nel lavoro di tutta la Chiesa
(…) per cui sarà evidente che almeno in Africa la Chiesa è impegnata su questo fronte
non perché l’ONU ha lanciato l’allarme o perché Bill Gates ha dato milioni, ma perché
questo è parte della vita (…) e essa vuole essere con la gente, quando si trova in
queste difficili situazioni. Spero diventi sempre più normale che chiunque si trovi
in difficoltà sappia di potersi rivolgere alla parrocchia, alla casa religiosa, alla
scuola cattolica locale, o alle cappellanie universitarie e trovare un aiuto solidale,
competente e stimolante. Penso che saremmo molto grati di questo.