2009-09-21 17:07:26

L'Africa fa i conti con il diritto alla vita: la sensibilità del continente per il rispetto della dignità umana


Schiavitù, violenza sulle donne, repressione religiosa e arruolamento dei bambini soldato, sono alcune pratiche ancora diffuse in Africa. In paesi come la Liberia, la Costa d’Avorio, la Sierra Leone, la Repubblica Democratica del Congo, la Guinea-Conakry e la Somalia continuano a perpetrarsi gravi violazioni dei diritti umani. I Vescovi africani, che si riuniranno in Vaticano dal 4 al 25 ottobre in occasione del secondo Sinodo per l’Africa, hanno posto proprio la riconciliazione, la giustizia e la pace al centro della discussione episcopale. A quindici anni dalla prima Assemblea Speciale per l’Africa, dunque, i presuli tornano a riflettere sui drammi del continente. Isabella Piro ha parlato con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, dei principali fenomeni di violazione delle libertà individuali in Africa. Ascolta l'intervista: RealAudioMP3

D. – Partiamo dalla pena di morte: in quali Paesi africani è ancora in vigore e in quali, invece, è stata abolita?

R. – La cosa importante da sottolineare è che si fa prima ad elencare i Paesi che ancora la mantengono, perché sono ormai una minoranza rispetto a quelli che ormai l’hanno abolita. Nelle leggi è prevista ancora in sedici Paesi: sono Botswana, Ciad, Comore, Egitto, Etiopia, Guinea, Guinea Equatoriale, Lesotho, Libia, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Uganda e Zimbabwe. In realtà, nel 2008 la pena di morte è stata applicata soltanto in Botswana, Egitto, Libia e Sudan, quindi in quattro di questi sedici Paesi. La seconda cosa importante da sottolineare è che negli ultimi dieci anni i Paesi africani che hanno abolito la pena di morte sono stati ben quindici. Burundi e Togo l’hanno abolita nel 2009 e certamente il Paese che ha fatto più storia e in cui l’abolizione è stata più significativa è il Ruanda, che l’ha abolita nel 2007, mostrando all’intero mondo che si può rinunciare alla pena capitale anche nella fase dolorosissima post-genocidio in cui le autorità ed il popolo del Ruanda hanno deciso che si poteva ricostruire la società e fare giustizia senza ricorrere ad uno strumento supremo di ingiustizia quale è la pena capitale.

D. – Possiamo quindi dire che è cambiata la sensibilità dei governi africani nei confronti del diritto alla vita?

R. - Certamente. Per quanto riguarda l’applicazione della pena capitale, c’è una sensibilità maggiore e tra i numerosi argomenti abolizionisti certamente quello che fa più presa, in questi Paesi, è il diritto alla vita. Ha aiutato anche la moratoria internazionale che è stata finalmente proclamata nel 2007 e poi ribadita nel 2008 dalle Nazioni Unite. Insomma, l’Africa è il continente che in questi ultimi venti anni ha fatto passi avanti enormi sul tema della pena capitale. Ripeto: ormai, il numero dei Paesi nei quali viene effettivamente applicata si è ridotto a quattro e possiamo che, con alcune limitate eccezioni, la pena di morte nell’Africa sub-sahariana è del tutto scomparsa.

D. – A livello internazionale – lo abbiamo detto poco fa a proposito della moratoria – la mobilitazione contro la pena capitale è molto forte. L’Africa come vive questo clima?

R. – Lo vive in maniera saggia, evitando, salvo alcuni casi specifici, di ricorrere al consueto tema che invece utilizzano molti Paesi del Medio Oriente e dell’Asia, cioè dell’ingerenza negli affari interni. Al contrario, Paesi africani sono stati essi stessi promotori della mobilitazione internazionale che ha dato vita alla risoluzione dell’ONU sulla moratoria e di questa moratoria hanno beneficiato certamente le associazioni laiche e religiose, i movimenti per i diritti umani che hanno fatto pressione sui governi. Da ultimo, voglio ricordare che proprio in Africa è stata registrata la più grande commutazione della pena capitale che si ricordi nella storia moderna: è avvenuto in Kenya, ai primi di agosto, con la commutazione (in ergastolo ndr) di quattromila condanne a morte. Il presidente del Kenya (Mwai Kibaki ndr) ha motivato questa decisione dicendo delle cose importanti che sembrano quasi richiamare le motivazioni di Amnesty International, cioè che la permanenza nei bracci della morte è una condizione disumana, degradante, equiparabile alla tortura, è una condizione che causa stress, ansia, angoscia sul piano fisico e mentale.

D. – Apriamo ora un altro drammatico scenario dell’Africa, ovvero quello dei bambini-soldato: in quali Paesi sono più numerosi?

R. – Nei Paesi in cui ci sono guerre: certamente lo scenario peggiore è quello dei Grandi Laghi, in particolare nella Repubblica Democratica del Congo, ma anche in Uganda movimenti di opposizione armati, gruppi armati che utilizzano bambini-soldato sono numerosi. È difficile tener conto, esattamente, della dimensione di questo fenomeno perché si tratta, in larga parte, di regioni in cui non è facile accedere, di regioni in cui ci sono scoppi improvvisi di ostilità, di Paesi anche molto grandi, come la Repubblica Democratica del Congo. (…) Poi, per quanto riguarda il fenomeno nella sua globalità, al di là dell’Africa ci sono Paesi – penso allo Sri Lanka, penso al Myanmar – nei quali i bambini-soldato sono utilizzati non soltanto come parte attiva nei combattimenti, ma anche ridotti, possiamo dire, in stato di schiavitù, cioè utilizzati come portantini o addirittura per soddisfare appetiti sessuali o dati in ricompensa per vittorie militari. Un fenomeno veramente turpe!

D. – Quali sono le cause principali del coinvolgimento dei minori nei conflitti armati?

R. – Uno Stato certamente debole, che non riesce ad imporre uno stato di diritto; il fatto che i bambini sono facilmente manovrabili, cadono in queste “trappole” dei grandi; costano poco dal punto di vista del loro mantenimento in vita; sono più docili, addomesticabili, e quindi, dal punto di vista di chi li usa, sono purtroppo delle prede facili da arruolare e dei soldati assolutamente economici da usare.

D. – Se ne parla poco, ma ci sono anche le bambine-soldato…

R. – Sì, (…) è un fenomeno che è stato denunciato recentemente più volte da organismi per i diritti umani ed è purtroppo collegato anche alla riduzione in schiavitù sessuale. Molto spesso le bambine-soldato non sono attive nei combattimenti, ma stanno nelle retrovie, nei campi, utilizzate proprio per scopi sessuali dai comandanti delle truppe per premiare il comportamento dei soldati, per premiare il valore mostrato in battaglia. Anche questo è un fenomeno veramente terribile.

D. – Su quali fattori agiscono i programmi di reinserimento dei bambini-soldato e, secondo Lei, sono efficaci?

R. – Sulla carta sono molto efficaci. Ovviamente, prima del reinserimento dei bambini e delle bambine soldato all’interno delle proprie comunità, occorre un processo di pace e di smobilitazione e questi non sempre sono facili. I motivi per cui spesso questi programmi sono destinati all’insuccesso sono, da un lato, il fatto che sono scarsamente finanziati da Stati che sono poveri, ridotti in condizioni terribili, di non funzionamento proprio a causa della guerra. C’è anche un notevole disinteresse della comunità dei (Paesi ndr) donatori che sembra non puntare molto sull’importanza di avere una smobilitazione e un reinserimento effettivo. In terzo luogo, purtroppo, queste guerre a cui partecipano i bambini e le bambine soldato sono così crudeli che a volte è difficile accettare il ritorno nelle comunità di questi ragazzi, perché spesso sono stati protagonisti, loro malgrado, di episodi efferati proprio all’interno delle loro comunità.

D. – Un’altra grande questione riguardante l’Africa è quella delle migrazioni: possiamo tracciare una mappa, a grandi linee, delle principali rotte di partenza e di arrivo dei migranti?

R. – Sì: certamente le due zone da cui partono i principali flussi di migranti sono l’Africa Occidentale, con episodici scoppi di crisi (abbiamo avuto, ad esempio, negli anni scorsi, grandi afflussi di migranti dalla Costa d’Avorio,) e, in secondo luogo, il Corno d’Africa dove ci sono, da un lato, Stati al collasso che esistono solo sulla carta, come la Somalia; dall’altro Paesi in condizioni perenne di guerra o di conflitto latente, come l’Eritrea e l’Etiopia. Poi, c’è da sottolineare che ci sono dei flussi interni che sfuggono alla nostra vista e che Amnesty International ed altre organizzazioni per i diritti umani cercano di verificare: penso, ad esempio, a movimenti dal Darfur verso il Ciad, penso al recente flusso di migranti dallo Zimbabwe verso il Sudafrica. Ecco, questi sono fenomeni più invisibili, ma certamente non meno numerosi.

D. – A Suo parere, cosa c’è all’origine del bisogno di emigrare?

R. – La ricerca di un luogo sicuro in cui stare, in cui non ci sia guerra, non ci sia persecuzione per motivi politici, etnici, religiosi, la ricerca di un lavoro che è una necessità certamente non meno nobile della ricerca di sicurezza. Tutto un insieme di fattori che danno luogo a quei così detti “flussi misti” di migranti per cui a volte, su un’unica rotta e su un’unica imbarcazione, si incontrano centinaia di persone provenienti da Paesi diversi dell’Africa, con ragioni diverse, ma tutte quante certamente molto impellenti.

D. – Al di là delle normative messe in atto dai singoli Paesi nei confronti dell’immigrazione, dal punto di vista umano un migrante di cosa ha veramente bisogno?

R. – Ha bisogno intanto di sicurezza ed incolumità fisica, nel breve periodo. Poi, nel periodo più lungo, ha bisogno di una prospettiva, che è quella di avere un luogo sicuro e stabile in cui trovare riparo, formare una famiglia, cercare un lavoro, con – io credo – la visione ultima di poter rientrare un giorno nella propria terra. Ricordiamoci che sono persone che vengono e cercano di entrare nelle nostre terre perché nelle loro non possono più restare.

D. – Spesso sembriamo dimenticarci che il migrante è anche una risorsa: in un mondo globalizzato, il razzismo è ancora una realtà?

R. – È una realtà molto diffusa, tant’è che proprio il diritto d’asilo è uno dei diritti più compromessi in questi ultimi decenni. C’è una situazione di discriminazione, di razzismo che Amnesty International denuncia da moltissimo tempo e che si aggrava proprio nel momento in cui una crisi economica globale prende piede. Il che vuol dire restringere il mercato del lavoro proprio mentre aumentano i flussi di migranti anche in cerca di lavoro; vuol dire soprattutto, all’indomani dell’11 settembre 2001, che ci troviamo in un mondo nel quale vige la paura, il sospetto, l’insicurezza, il timore che il diverso e l’altro da noi sia una minaccia. Ecco, questo insieme di insicurezza economica, di incertezza, di sospetto, di paura, di minaccia è un mix terribile che costituisce proprio il luogo di coltura del razzismo.

D. – Parliamo ora dello sfruttamento di donne e bambini africani: quali sono i settori i cui si contano più casi?

R. – Oltre ai bambini e le bambine soldato di cui abbiamo parlato prima, altri due fenomeni particolarmente gravi sono il ricorso al lavoro minorile, che è una condizione largamente praticata: penso alle piantagioni di cacao nell’Africa occidentale. Poi, nei confronti delle donne, c’è ancora, in diversi Paesi africani e poi arriva anche in Europa e in Italia, un traffico turpe di donne destinate al mercato della prostituzione. Si tratta di persone ridotte in condizione di schiavitù. Tutto questo ha a che fare, da un lato, con condizioni difficili di vita che spingono persone nelle mani di bande criminali; dall’altro, per quanto riguarda il lavoro minorile, ha a che fare anche con il fatto che l’Africa è un continente ricchissimo di risorse e il lavoro minorile è quello più economico. Ciò fa sì che oggi, nelle miniere della Repubblica Democratica del Congo o di altri Paesi il cui sottosuolo è ricchissimo, si trovino a lavorare moltissimi bambini. Il tutto, ovviamente, con il beneficio economico di multinazionali che sono ben lontane da quei Paesi e che però dalle risorse di quei Paesi traggono beneficio.

D. – Secondo Lei è giusto dire che lo sfruttamento è legato anche in parte a situazioni culturali e a tradizioni locali?

R. – Non è sbagliato dirlo. Però, nei casi che ho descritto, l’interesse e il beneficio vanno lontani dall’Africa, verso Paesi e culture che non sono africane. In Africa, ci sono forme di discriminazione: penso in particolare a quelle nei confronti delle donne, che hanno uno status inferiore non tanto nella legge, quanto nella prassi. Il che fa sì che le donne siano cittadine di serie B. Molti Paesi africani, in questi ultimi anni, si sono dotati di normative che cercano di porre fine alla discriminazione sul piano dei diritti civili, politici, sul piano della successione dell’eredità, sul piano del matrimonio. Però, esistono ancora molte resistenze sul piano tradizionale. Poi, non va dimenticato che ci sono alcune prassi, alcune tradizioni, alcuni costumi che vanno a colpire in maniera feroce le donne: penso alle mutilazioni genitali femminili che, nonostante siano in diminuzione, restano un fenomeno molto diffuso in Africa. D. – Come aiutare le vittime di questa piaga?

R. – Denunciando, facendo sapere, aiutando l’Africa, ma aiutandola dando voce, spazio, risorse anche donazioni, alle associazioni spesso di donne che, in moltissimi Paesi cercano di porre fine a queste violazioni dei diritti umani, in una società civile, che è precaria, povera, ma molto attiva.

D. – Di fronte a tutto ciò che abbiamo detto, quali sono le aspettative di Amnesty International per il prossimo Sinodo dei Vescovi per l’Africa?

R. – Fare della questione dei diritti umani, a tutto tondo, una grande priorità, continuare a farlo nei casi in cui ciò già avviene, appoggiare le associazioni di base che fanno un lavoro straordinario, sia quelle legate alla Chiesa sia quelle laiche, che sono coloro che danno voce a persone che, altrimenti, non hanno voce. Quindi, puntare molto sui diritti umani nella consapevolezza che l’Africa è un continente in grande sviluppo, con grandi problemi di guerre, di povertà, di miseria, ma è un continente dal quale arrivano segnali, sui diritti umani, straordinari. Intercettare questi segnali ed aiutarli a rafforzarsi credo sia uno degli auspici che Amnesty International si propone per questo Sinodo.

D. – Secondo Lei la Chiesa come può agire in questo campo?

R. – Può agire con parole importanti, autorevoli, può agire con le Chiese locali, con le associazioni. La voce della Chiesa è molto ascoltata e una parola che proviene dalla Chiesa è una parola che fa sempre la differenza.








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