La Chiesa e il dialogo interreligioso in Africa, il continente della speranza
Una Chiesa che condivide gioie, speranze e problemi della società africana quale strumento
per forgiare una cultura di pace. Una “Chiesa d’Africa”, unita al di là delle divergenze
confessionali e aperta al dialogo con le religioni tradizionali, come con l’Islam.
È questa la sfida al centro della seconda Assemblea Speciale dei Vescovi per l’Africa,
che avrà luogo dal 4 al 25 ottobre in Vaticano, sul tema della riconciliazione, della
giustizia e della pace. A quindici anni di distanza dal primo Sinodo, i presuli tornano
quindi a riflettere sull’Africa. Sulla realtà del dialogo interreligioso in questo
continente, Isabella Piro ha intervistato Sandra Mazzolini, docente
di Teologia ed Ecclesiologia presso la Pontificia Università Urbaniana. Ascolta l'intervista:
D. - Ci
sono reali possibilità di dialogo interreligioso in Africa?
R. - La
possibilità effettiva di dialogo interreligioso va contestualizzata sullo sfondo della
storia dell’Africa, a partire dal Sinodo del 1994, che è una storia caratterizzata
dalla proliferazione di sanguinosi conflitti. E penso che proprio questo abbia suggerito
la scelta di incentrare i lavori del prossimo Sinodo sulle categorie di riconciliazione,
giustizia e pace. Dunque mi sembra che proprio in questa opzione risieda la possibilità
effettiva di un dialogo interreligioso, soprattutto nella prospettiva di quello che
Giovanni Paolo II chiamava “dialogo di vita”. È un dialogo nel quale si testimoniano
reciprocamente i propri valori spirituali e umani, sostenendosi nel viverli per edificare
una società più giusta e fraterna (cf.RMi 57). È chiaro che, se noi consideriamo riconciliazione,
giustizia e pace, queste implicano un impegno condiviso e, in questo senso, mi sembra
proprio che costituiscano ambiti specifici di attuazione del dialogo interreligioso
che, evidentemente, i vescovi ritengono possibile per l’Africa.
D.-
Con quali religioni il cristianesimo ha rapporti migliori, in Africa?
R.
- È difficile dare indicazioni precise in merito, perché oggettivamente la situazione
è assai variegata. Basterebbe farsi venire alla mente una cartina geografica dell’Africa
e pensare, nel loro insieme, ad esempio, ai Paesi dell’Africa settentrionale e a quelli
dell’Africa sub-sahariana o dell’Africa del sud. Se noi guardiamo questa cartina e
la guardiamo anche dal punto di vista religioso, è chiaro che la presenza dei cristiani
in genere (e dei cattolici in specie) varia nelle diverse zone del continente, così
come varia la presenza di altre tradizioni religiose. Poi c’è anche da ricordare che,
sulla qualità del rapporto con le altre religioni, incidono anche fattori diversi:
sto pensando, ad esempio, alle diverse legislazioni degli Stati in materia religiosa.
E poi, tra questi fattori, dobbiamo anche tener conto della storia stessa dell’evangelizzazione:
l’Africa è stata evangelizzata in più fasi, con metodi e metodologie differenti. Oggi
credo che per ciò che riguarda questa rete di relazioni del cristianesimo, o meglio
del cattolicesimo con le altre religioni, ci sono due fattori ulteriori, che possono
rendere più o meno problematico il rapporto tra le varie tradizioni religiose: il
primo fattore è costituito dalla diffusione del radicalismo islamico. Anche qui io
credo che basterebbe controllare una cartina geografica: questo radicalismo islamico
si sta indubbiamente diffondendo nel Corno d’Africa, ma anche nella Nigeria, nel Sudan,
nella Costa d’Avorio, nella Guinea Conakry, nel Niger, nel Mali, nel Togo ecc. Questa
diffusione rende possibile la costituzione di reti terroristiche. Un secondo fattore
è la diffusione di sette che molto difficilmente si possono definire “cristiane”;
se lo sono, lo sono soltanto come patina esteriore. Sono sétte che si presentano con
un’offerta di benessere, naturalmente da conseguire dietro compenso, un benessere
che può essere e accadere qui e ora.
D. – Possiamo tracciare brevemente
una mappa su quali sono le aree geografiche del continente africano in cui si manifestano
maggiori tensioni legate alla diversità di credo?
R. - Credo che sia
abbastanza difficile, perché i conflitti che insanguinano l’Africa hanno chiavi di
lettura diverse: sono conflitti etnici, clanismo, tribalismo, signori della guerra
e, attualmente, anche episodi terroristici. Quindi l’individuazione delle cause è
complessa; anche se si pensa che oggi c’è un fattore – non nuovo per la verità, ma
nuovo per le forme – che è dato dalle nuove presenze coloniali. L’Africa è ricca
di materie prime che sostengono lo sviluppo economico di Paesi come gli Stati Uniti
o l’Europa e che sono molto appetibili dalle nuove nazioni emergenti come l’India
e la Cina. Io credo che, se noi dovessimo analizzare, ad esempio, la guerra nella
zona dei Grandi Laghi, ci troveremmo di fronte ad una serie di conflitti che sono
emblematici di questa complessità. E allora, talvolta capita che episodi di conflitto
violento, dall’apparente carattere religioso, si verificano però in contesti caratterizzati
da complessità etno-tribali e dalla presenza di ‘confraternite’ religiose con interessi
locali (sto pensano al Sudan, ma anche alla questione del Darfur). E allora, come
individuare le aree geografiche del continente africano in cui si manifestano maggiori
tensioni legate alla diversità di credo? Io penso che ci sia, in sintesi, un indicatore
molto chiaro, ovvero che le aree dove è maggiormente possibile l’insorgenza di queste
tensioni sono quelle dove maggiore è il sottosviluppo, a fronte però, di ricchezze
naturali che non sono utilizzate per uno sviluppo interno. Questa situazione di terribile
sottosviluppo correlativamente comporta una possibilità maggiore di penetrazione di
sette e movimenti fondamentalisti.
D. - Ci sono in Africa modelli positivi
di rapporto tra cristianesimo ed Islam?
R. - Quando si parla dei rapporti
con l’Islam, occorre precisare che non è un mondo monolitico, ma complesso, un mondo
che attualmente sta conoscendo, al suo interno, non facili dinamiche di trasformazione.
Dunque, le relazioni con l’Islam vanno comprese nel quadro del suo dinamismo attuale,
che presenta anche i tratti dell’intolleranza religiosa, e tali relazioni vanno considerate
anche nel variegato impatto politico dell’Islam che non poche volte rende difficile
il dialogo. Ciononostante, ci sono molte esperienze positive, nelle quali si attua
il cosiddetto “dialogo di vita”, e sono tutte esperienze che attengono, ad esempio,
all’ambito caritativo e sociale. Un esempio interessante è quello di “Radio Sol Mansi”,
organizzata in Guinea Bissau, in cui si realizza una concreta collaborazione quotidiana
di cristiani e musulmani, quindi un’attuazione del “dialogo di vita”; se poi si osserva
il palinsesto della radio, si vede che non mancano programmi sia per i musulmani e
sia per gli evangelici. E poi ci sono interventi congiunti formativi su temi di attualità,
per esempio la lotta all’AIDS, la promozione della donna, l’educazione alimentare,
il dialogo tra fedi diverse.
D. – E nel dialogo ecumenico tra le chiese
cristiane, a che punto si è giunti in Africa?
R. - Il dialogo ecumenico
– in Africa come altrove nel mondo – sta attualmente procedendo più sulla linea del
“dialogo della vita”, anche se non manca un impegno anche a livello teoretico. Luci
e ombre disegnano l’indubbio cammino già compiuto, che, positivamente, trova espressione
concreta in esperienze condivise di preghiera: per esempio, sto pensando alla celebrazione
della Settimana di Unità dei Cristiani, ma anche esperienze di studio. Significativa
è la traduzione della Bibbia in lingue locali in collaborazione con l’Alleanza biblica,
ma penso anche ad esperienze condivise di impegno caritativo e sociale. Si tratta
di un cammino da potenziare, perché naturalmente ci sono ombre, superando ostacoli
quali una certa diffidenza, rivalità tra gruppi, mancanza di tolleranza e di comprensione
reciproca. Le radici di questi ostacoli sono certamente da ritrovarsi, da un lato,
nella storia pregressa delle relazioni tra le diverse comunità cristiane ma, dall’altro,
nella mancanza, che frequentemente si riscontra, di conoscenza della propria e, soprattutto,
dell’identità degli altri. Dunque, le Chiese e le comunità ecclesiali coinvolte nel
dialogo ecumenico in Africa si trovano poi oggi a dover affrontare anche le sfide
derivanti dal moltiplicarsi incontrollato delle sétte, che ingenerano evidenti fenomeni
di “transumanza” religiosa. Si tratta di fenomeni che non possono essere spiegati
soltanto con l’aggressività delle sétte. Alla luce di tutto questo, credo che anche
in Africa, per proseguire il dialogo ecumenico, più che mai appare oggi necessaria
un’adeguata formazione cristiana.
D. – Affrontiamo il tema delle religioni
tradizionali africane: è possibile conciliarle con il cristianesimo? E in che modo?
R.
- Se “conciliare” significa creare una religione “sincretistica”, allora tale conciliazione
non è possibile perché il cristianesimo ha una sua specificità irriducibile che non
è conciliabile con altre esperienze religiose (sto pensando al mistero salvifico e
cristologico, Gesù Cristo che è il compimento della salvezza e delle promesse divine).
Ma se “conciliare” invece allude piuttosto al riconoscimento nelle religioni tradizionali
della presenza di aspetti positivi – e perciò salvifici (sono quelli che, con categoria
tradizionale, si chiamano i “semi del Verbo”) –, allora tale conciliazione è possibile.
“Maestro”, in questo senso, è il Concilio Vaticano II, che segna un momento di apertura
al mondo delle altre tradizioni religiose; il Concilio adopera un linguaggio positivo
per parlare del rapporto della Chiesa con le diverse religioni, mettendo in luce elementi
comuni, che possono favorire un dialogo reciproco. Le religioni tradizionali africane
costituiscono un humus socio-culturale di riferimento anche per coloro che già sono
cristiani, e dunque anche per questo si impone come necessario un discernimento che
ne metta in luce elementi positivi e negativi. Inoltre, non c’è dubbio che l’attenzione
alle culture tradizionali possa favorire i processi di inculturazione e di contestualizzazione
del cristianesimo, a patto però di ricordare che le culture tradizionali non vanno
mitizzate: non esistono allo stato “puro”, ma nel tempo hanno conosciuto modificazioni
causate per esempio dall’incontro con altri universi culturali.
D. –
Alla luce di tutto quello che abbiamo detto, l’Africa è comunque ‘un continente di
speranza’?
R. – L’Africa è più che un continente di speranza: è un continente
dove già si sta vivendo un cambiamento, difficile finché si vuole, ma è un continente
ferito che però cammina. Forse anche noi, qui in Occidente, dovremmo imparare a guardare
l’Africa anche con queste “lenti”. L’Africa non è solo quella dell’Aids: l’Africa
è anche quella del cinema, della letteratura e di tanta bella gente: tra i miei studenti,
ho trovato persone eccezionali dal punto di vista umano e cristiano.