Afghanistan: la strage dei parà scuote l'Italia: lunedì i funerali solenni
Rabbia e dolore all’indomani del tragico attentato kamikaze in Afghanistan costato
la vita a sei militari italiani più altri 15 civili, 60 invece i feriti. Lunedì a
Roma i funerali solenni delle vittime, giornata per la quale è stato deciso il lutto
nazionale con un minuto di silenzio nelle scuole e negli uffici pubblici. Unanime
il cordoglio del mondo politico e religioso, le condoglianze alle autorità italiane
sono giunte anche dal presidente della Commissione Ue, Barroso, ma la violenza nel
Paese non si ferma: Oggi un’altra bomba ha ucciso nel sud un soldato americano. Il
servizio di Cecilia Seppia:
La strage
dei parà scuote l’Italia, mentre ferma e unanime arriva la condanna del mondo intero,
contro l’attentato kamikaze di ieri a Kabul, rivendicato dai talebani. Dei dieci militari
a bordo dei mezzi blindati, saltati in aria nell'esplosione, solo 4 sono sopravvissuti,
per gli altri 6 nulla da fare. Appartenevano al 186.mo Reggimento Paracadutisti
di stanza a Pisa: il tenente Antonio Fortunato, in missione da 4 mesi, padre di un
bambino di 8 anni, per tutti il gigante buono, vista l’imponenza del suo fisico;
il sergente maggiore Roberto Valente, anche lui padre di un bimbo di due anni, aveva
appena ottenuto il trasferimento dopo 16 anni e da lì a poco sarebbe tornato per sempre
a Napoli; il caporalmaggiore Matteo Mureddu, 26 anni, il più giovane tra i suoi compagni,
sognava il battesimo di suo nipote al quale avrebbe fatto da padrino. E poi Gian Domenico
Pistonami, faccia pulita e sorriso sempre pronto, faceva il conto alla rovescia aspettando
le nozze; ancora Massimiliano Rondino, il soldato che amava recitare, tornato a Kabul
dopo una licenza di 12 giorni trascorsi con la moglie; infine Davide Ricchiuto, un
ragazzo come tanti, questa doveva essere la sua ultima missione. A rendere omaggio
ai caduti, oggi al Consiglio Supremo della Difesa, il premier Berlusconi, il presidente
del Senato Schifani e le più alte cariche dello Stato. Acceso intanto resta il dibattito
politico e mentre il ministro degli Esteri Frattini, chiede un cambiamento di strategia
in Afghanistan, dal presidente della Camera Fini arriva l’invito a cessare le polemiche,
per richiamare l’unità e dar voce al dolore. Unanime anche il cordoglio dei vescovi
italiani: il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco in un telegramma inviato
a mons. Pelvi, ordinario militare per l’Italia, ha espresso profonda vicinanza alle
famiglie delle vittime, assicurando preghiera e conforto. Condoglianze alle autorità
italiane anche dal presidente della Commissione Ue, Barroso. Lunedì giorno di lutto
nazionale, si svolgeranno i funerali dei 6 parà, le cui salme rientreranno in Italia
domenica, all’aereoporto di Ciampino.
Dopo l’attentato
di ieri a Kabul contro i paracadutisti della Folgore s’inasprisce il dibattito politico
sulla presenza italiana in Afghanistan. La stessa maggioranza di governo appare spaccata
sull’argomento tra chi chiede un ritiro immediato e chi caldeggia un cambiamento di
ruolo per il contingente italiano. A preoccupare il mondo della politica tuttavia
è il peggioramento della situazione nel Paese asiatico nonostante le recenti elezioni
politiche e presidenziali. Antonella Palermo ha intervistato Fulvio Scaglione,
vice-direttore di Famiglia Cristiana ed esperto dell’area.
R. - Io credo
che la politica dovrebbe avere finalmente, dopo otto anni, la serietà di ammettere
un’amarissima realtà e cioè l’intervento in Afghanistan è un fallimento e ammettere
che abbiamo fallito serve non per fare le valigie e tornare tutti a casa, che sarebbe
un errore, ma per resettare la situazione e reimpostarla su altre basi, soprattutto
altre basi politiche.
D. – E' abbastanza chiaro nell’opinione
pubblica italiana che la situazione che c’è in Afghanistan è quella di un teatro di
guerra?
R. – No, io credo che non sia abbastanza
chiaro e credo che questo dipenda dalla politica degli anni scorsi, quando bisognava
obbligatoriamente dichiarare che andava tutto bene, che si era tutto risolto. Insomma,
ci sono stati anni in cui ci si è profondamente illusi. Qualche risultato lo si stava
ottenendo, però nel dolore di questa perdita dobbiamo anche ricordare che quest’anno,
già adesso e anche prima di questo attentato, era comunque l’anno per le truppe della
coalizione occidentale più drammaticamente ricco di perdite di questi otto anni di
intervento militare.
D. – Come leggere questo episodio
gravissimo alla luce dei dati sulle presidenziali del 20 agosto scorso?
R.
– Io credo che i due atti non siano strettamente correlati, anche se è chiaro che
in questo clima questo attentato va comunque letto come un attacco contro Karzai e
contro il suo governo. In altre parole, Karzai è il maggiore e il più influente dei
capi tribù dell’Afghanistan. Finché non si riesce o a convincere lui o a instaurare
un governo che lavori veramente per il Paese intero, non si riuscirà a conquistare
alla causa della democrazia quegli ulteriori spicchi di società afghana che potrebbero
però essere decisivi.
Cresce la polemica anche su come
impedire che tragedie come quella di ieri possano ripetersi e su eventuali difetti
di comunicazione tra i settori dell’intelligence militare, che alla luce dei fatti
appare come uno degli elementi maggiormente sottovalutati nel conflitto afgano, come
conferma anche Arduino Paniccia, docente di studi strategici all’università
di Trieste al microfono di Giancarlo La Vella:
R. – Non
si tratta soltanto di rafforzare il dispositivo militare, ma – a mio parere – quello
che è importante è anche riuscire a fare in modo - soprattutto attraverso l’intelligence
e quindi l’informazione – di conoscere dove sono i pericoli, dove possono svilupparsi
e chi li porta avanti. La soluzione del rafforzamento dei dispositivi, anche se è
giusta, deve vedere una maggior attenzione a tutta la parte informativa e dell’intelligence.
Sapendo poi che l’Afghanistan oggi è – con i dati delle Nazioni Unite – il maggior
produttore di oppio e di eroina del mondo, naturalmente ci sono aspetti sociali e
politici. Il presidente Karzai non può pensare soltanto di aver vinto in una molto
controversa elezione. Forse, com’è già avvenuto in altri Paesi dell’area, c’è da pensare
a qualcosa che assomigli ad un’unità nazionale e quindi ad una minore forza governativa.
D.
– Lei pensa sia possibile confrontarsi con i talebani senza armi e chi potrebbe farlo?
R.
– Oggi, in Afghanistan, ci sono delle forze in grado di aprire un negoziato, ovviamente
non con l’ala dura dei talebani da parte militare, né con i talebani che sono diventati
i signori della droga e degli spacciatori a livello internazionale. Quello che credo
sia molto chiaro è che non si può portare avanti nessun tipo di trattativa diplomatica
o negoziale ritirandoci o abbandonando la parte militare. Le due parti sono praticamente
un vaso comunicante.