E’ sempre drammatica la situazione delle comunità cristiane in Iraq. La recente guerra
ha ridotto le presenze da 800 mila a poco più di 500 mila. Per costoro continua la
fuga dalle violenze quotidiane, da parte di gruppi delle altre etnie, all’estero o
nel nord del Paese del Golfo nel tentativo di ricreare una situazione di pacifica
stabilità. Ma anche questo tentativo sta creando nuovi atti di violenza e di intimidazione.
Giancarlo La Vella ne ha parlato con Camille Eid, esperto di Medio Oriente
del quotidiano Avvenire:
R. – Gli
ultimi dati statistici parlano di circa metà dei cristiani iracheni che sono già all’estero,
in Europa e in America, ma anche in Paesi circostanti come la Siria, il Libano, la
Giordania, in attesa di trasferirsi in America o nel nostro continente. L’altra metà,
invece, è soprattutto concentrata nella zona della piana di Ninive, vicino a Mossul.
Questa concentrazione porta alcuni cristiani a meditare addirittura la creazione di
una zona autonoma sull’esempio di quella che vediamo nel nord dell’Iraq come zona
autonoma curda. Alla fine i cristiani si troveranno tra l’incudine e il martello,
perché la loro zona si trova proprio sul confine tra la zona curda e la zona che potrebbe
diventare lo Stato sunnita. Per questo motivo le autorità ecclesiastiche irachene
ritengono che sia pericolosa anche dal punto di vista strategico, perché non è vivibile
una zona autonoma, e soprattutto ribadiscono il fatto che i cristiani hanno sempre
convissuto con curdi, sciiti, sunniti, turkmeni e con tutte le altre confessioni ed
etnie irachene. Si chiedono perché mai debbano accontentarsi di un ghetto. Considerano
questa ghettizzazione dei cristiani solamente una tappa verso la loro espulsione completa
e definitiva dall’Iraq, un Paese in cui vivono da due millenni.
D.
– La presenza cristiana è stata ridimensionata anche dal punto di vista politico nei
Parlamenti iracheni. Che cosa provoca la mancanza cristiana negli ambienti decisionali
dell’Iraq?
R. – Provoca anzitutto amarezza perché
i cristiani hanno sempre partecipato ai diversi governi. Effettivamente poi la diminuzione
del ruolo politico dei cristiani porta ad una rinuncia del ruolo sociale della comunità
cristiana; questo ovviamente favorisce solo le emigrazioni.
D.
- C’è il rischio che il dramma dei cristiani in Iraq venga dimenticato di fronte al
dramma altrettanto grande che sta vivendo tuttora il Paese del Golfo?
R.
– Purtroppo sì. Esiste certamente questo rischio, eppure noi sappiamo che la presenza
cristiana in Medio Oriente è sempre stata un seme di pace tra differenti comunità.
Gli iracheni sunniti, sciiti e curdi non si rendono conto che eliminare la presenza
cristiana vuol dire anche eliminare ogni possibilità di convivenza tra loro stessi.