2009-09-04 15:02:18

Le Acli a Perugia sulla cittadinanza negata: intervista con Andrea Olivero


Si è aperto ieri a Perugia il 42.mo incontro nazionale di studi delle Acli sul tema “Cittadini in-compiuti. Quale polis globale per il XXI secolo”. Al centro del Convegno delle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani il tema della cittadinanza: in particolare si è parlato della possibilità di passare, per concedere la cittadinanza agli stranieri, dallo jus sanguinis allo jus soli: ovvero, chi nasce in Italia sarebbe automaticamente italiano. Le Acli sono convinte che l’attuale normativa in fatto di cittadinanza neghi diritti a tanti cittadini. Alessandro Guarasci ha intervistato al riguardo il presidente Andrea Olivero:RealAudioMP3

R. – Innanzitutto, sono negati a tantissimi cittadini che in Italia vivono da lungo tempo, che hanno scelto di vivere nel nostro Paese, che vogliono bene al nostro Paese, hanno messo al mondo figli e si stanno impegnando. Sono circa un milione e 600 mila quelli che sono nati in Italia e quelli che da più anni, almeno cinque, risiedono stabilmente, che potrebbero avere la cittadinanza e che oggi ne sono esclusi. In più ci sono tanti che la cittadinanza ce l’hanno, ma che non riescono a godere fino in fondo dei diritti. E ci sono, in particolare, soggetti sociali, che sono dimenticati: la famiglia, che viene considerata nelle dichiarazioni politiche, ma che poi è costantemente dimenticata nei momenti delle scelte; giovani, donne, soggetti anche come i lavoratori, in particolare i lavoratori precari, che non vedono riconosciuti quei diritti, che pure sono sanciti nella Costituzione e che dovrebbero essere l’elemento determinante dello stare insieme.
 
D. – Un primo punto da cui partire è lo ius soli?
 
R. – Sì, uno ius soli che, naturalmente, deve essere anche contemperato con lo ius sanguinis, che dovrà mantenersi. Noi siamo un Paese di emigranti e di immigrati. Questa è una condizione particolare, che riguarda l’Italia. Non dobbiamo troncare il rapporto con chi è andato via, anche se dobbiamo limitare naturalmente lo ius sanguinis, che non può continuare ad allargarsi, come stiamo facendo da anni. Dobbiamo, però, mettere lo ius soli, dobbiamo consentire a chi nasce in Italia di essere italiano fino in fondo.
 
D. – Sulla politica migratoria serve comunque stabilire dei criteri più precisi e più ampi per concedere, per esempio, l’asilo?
 
R. – Chiaramente noi dobbiamo andare a stabilire quali sono le regole. In molti casi, siamo ancora con definizioni vaghe che consentono ai governi di chiudere tendenzialmente, non di aprire. Noi dobbiamo essere molto attenti a quanti hanno diritto di entrare nel nostro Paese: non possono essere cacciati come è successo in questi mesi. Ne va di mezzo non soltanto una questione umanitaria generica, ne va di mezzo la nostra stessa identità. Noi siamo un Paese che ha fatto dell’accoglienza, della solidarietà, del rispetto dei diritti umani la sua bandiera nel mondo. Andare a dimenticarsi questo, vuol dire non voler bene all’Italia.
 
D. – E per venire incontro ai bisogni delle famiglie, secondo lei servono più servizi o meno tasse?
 
R. – Secondo me serve il riconoscimento della famiglia come soggetto ed è per questo che noi abbiamo da più tempo sostenuto la necessità di un quoziente familiare, che da un lato appunto diventa meno tasse, ma che dall’altro consente anche allo Stato di vedere la famiglia in quanto tale, come un soggetto autonomo, che determina anche le sue stesse scelte, la sua possibilità di operare all’interno della società. E’ chiaro che la questione deve essere tenuta in considerazione nella sua complessità e non possono essere tolti i servizi, a fronte anche di una riduzione delle tasse. Non possiamo dimenticarci che siamo agli ultimi posti in Italia per i servizi per le famiglie, e quindi dobbiamo fare uno sforzo anche in quella direzione. Ribadisco, però, prima di tutto: osiamo oggi introdurre il quoziente, perchè è l’unico modo per fare i conti con questo soggetto sociale.







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