Anno Sacerdotale: la testimonianza di don Elisée Ake Brou, da immigrato che chiede
la carità a sacerdote che offre la Carità
E’ un invito a metter da parte il pregiudizio per aprirsi all’incontro vero con l’altro,
a lasciarsi sorprendere ed interpellare dalla scoperta di un cuore votato a Dio e
al sacerdozio, da un cuore di migrante che al semaforo chiede ed offre la Carità.
E’ l’esperienza di don Elisée Ake Brou, immigrato dalla Costa D’avorio, ordinato
sacerdote lo scorso 29 giugno, nella diocesi di Monreale, in Sicilia. Nella testimonianza
lasciata a Claudia Di Lorenzi ci racconta cosa lo abbia spinto a lasciare la
sua terra e la sua famiglia:
R. – Posso
dire che prima è stata la mia fede cattolica. Sono stato battezzato a 14 anni, in
una parrocchia dedicata al Curato d’Ars, San Giovanni Maria Vianney. E’ lì che inizia
la mia vocazione, perché le parole che il prete che mi battezzava, pronunciava “Sei
diventato re e sacerdote” mi hanno veramente spinto. Ero orfano di papà e mamma. E'
stato difficile per me poter realizzare quello che sentivo dentro di me. Già da bambino
sono sempre stato con i missionari, sono anche stato catechista e mi sono detto: andando
in Italia, posso incontrare persone che possono aiutarmi a realizzare questo sogno.
D.
– Come è stato il primo “incontro” con l’Italia?
R.
– Sono venuto da “immigrato” a trovare qualcosa da fare nella mia vita, per potere
aiutare anche i miei fratelli e sorelle che avevo lasciato. Quando sono arrivato qui
ho lavorato, ma ovunque andassi le persone mi dicevano: una cosa è il lavoro che si
deve fare, ma tu devi dare la tua vita al Signore! Le persone nel mio Paese me lo
dicevano. Allora - mi sono detto - Signore, fa di me ciò che vuoi! E’ poi ho incontrato
un prete, una suora che mi hanno aiutato ad entrare in seminario.
D.
– Per guadagnarsi da vivere, all’inizio si è trovato a dover fare il lavavetri, il
badante. Come ha vissuto questa esperienza?
R.
– Vedo anche il lavoro domestico, quello del lavavetri, del posteggiatore come un
servizio. Io lo facevo, questo, con tutto l’amore. A volte non chiedevo nemmeno i
soldi. E la gente che mi dava del denaro …. Per esempio, le donne che andavano al
mercato, quando avevano tante buste da portare fino all’ascensore, io le aiutavo.
Era un gesto d’amore, di comunione, perché per me la fede è questo: vivere la propria
fede con atti precisi, concreti.
D. – Oggi lei è
il prete degli immigrati, un punto di riferimento per tutti i migranti della Sicilia,
perché con loro ha condiviso difficoltà e sogni …
R.
– A tutti gli immigrati io dico sempre: guarda, lo scoraggiamento non è per l’immigrato!
Ci sono tre categorie di persone che Dio non abbandona mai: le vedove, gli orfani,
gli stranieri. Io l’ho sperimentato. E’ vero, sono diventato prete per la diocesi
di Monreale, per gli italiani, ma sono prete anche per gli immigrati, perché penso
che già la mia presenza sia per loro un conforto. Quando hanno qualche difficoltà
con la politica o nelle loro famiglie o nelle loro comunità, mi chiamano: io vado,
perché in quanto immigrato arrivo ad entrare nella loro mentalità, perché io l’ho
vissuta, sperimentata. Vado da loro per dare una parola che da gioia, conforto, una
parola che perdona …
D. – La sua esperienza simboleggia
poi quel “lieto fine” che è l’auspicio di tutti i “viaggi della speranza” …
R.
– La speranza dev’essere la caratteristica di tutti gli immigrati. Dico loro: guarda,
Dio esiste e la speranza è la caratteristica più grande di Dio. Il futuro c’è sempre,
per ciascuno di noi. Mettiamo allora tutto nelle mani del Signore ma dobbiamo anche
fare la nostra parte. Io dico sempre: gli italiani non sono obbligati ad amarci, ma
noi dobbiamo amare loro, perché se noi amiamo loro, loro sapranno che veramente siamo
veri … Il primo passo deve venire da noi immigrati: amare loro, rispettare le loro
leggi, la loro cultura, la loro tradizione, i loro costumi. E poi, anche loro ci ameranno.
D.
- Nella sua vicenda, anche il monito a mettere da parte il pregiudizio verso i migranti
….
R. – Posso dire che l’immigrazione ha un aspetto
positivo ed un aspetto negativo, ma è soprattutto una risorsa, una ricchezza per il
popolo italiano per i lavori che essi svolgono. Quando, per esempio, le persone mi
chiamano e mi dicono: Padre Elisée, puoi trovare una persona di fiducia che possa
venire a lavorare a casa mia per assistenza alla mia mamma, o per fare compagnia ai
miei genitori? Io trovo queste persone, lavorano 24 ore su 24. Io dico sempre agli
immigrati che vanno a fare questo lavoro: guarda, questo lavoro dev’essere prima di
tutto un servizio e poi viene il guadagno. Allora loro mi ringraziano. E’ una ricchezza,
un dono che dobbiamo cercare anche di valorizzare.